«Il terremoto segna un prima e un dopo nella storia dell’Irpinia, ma anche nella mia vita. Quella sera accantonai i miei sogni di giovane militante di sinistra pronta a trasferirsi nella Capitale, perché decisi che dovevo restare e costruire insieme a tanti giovani il nostro futuro qui». Rosetta D’Amelio ripercorre gli attimi di terrore vissuti il 23 novembre del 1980, la sua militanza politica e la ricostruzione di Lioni, paese di cui è stata sindaco dal ’97.
Chi era Rosa D’Amelio prima delle 19,35 del 23 novembre 1980?
«Ero una giovane donna già impegnata nel sociale, in particolare nelle lotte di genere, e segretaria del Pci di Lioni. Mi ero laureata a Roma in Sociologia e poi mi ero iscritta nuovamente all’Università alla facoltà di Psicologia. Volevo continuare gli studi e trasferirmi definitivamente nella Capitale, dove ero impegnata nei comitati studenteschi e avevo costruito alcuni affetti personali, pur mantenendo un rapporto stretto con Lioni dove vivevano i miei genitori e i miei compagni. Quella era una domenica come tante, dopo aver comprato le ceramiche di Calitri di cui ero appassionata e aver trascorso un pomeriggio in piazza con le amiche, ricordo che era una giornata caldissima, tornai a casa un quarto d’ora prima della scossa. E da allora cambiò tutta la mia vita, anche i miei sogni che erano quelli di una ragazza impegnata ma che era affascinata dall’idea di poter continuare a vivere a Roma».
Che ricorda di quei momenti drammatici?
«La mia è una delle dieci case che non crollarono. Fui fortunatissima, pensare che solo poche ore prima ero entrata nelle case di due care amiche che invece si sgretolarono. Pensai fosse scoppiata la bombola del gas, tanto fu forte il boato e lo sbalzo che mi fece finire contro il muro. Poi iniziai a sentire le grida dei miei genitori, che in quel momento si trovavano dai miei zii che vivevano al lato opposto della strada, che mi chiamavano a squarciagola. Uscì fuori ma non riuscivo a vederli, c’era solo polvere ed urla disumane. Bastarono pochi passi per comprendere l’entità della catastrofe. La mia famiglia abitava tutta nella stessa strada, corsi a casa di uno zio ma mentre andavo sentivo già le grida di persone sotto le macerie di una palazzina totalmente controllata. Quella casa era ridotta ad un tetto poggiato a terra, e man mano che camminavo vedevo solo abitazioni rase al suolo. Nel raggio di trenta metri morirono tantissimi amici, famiglie intere, anche bambini. Ogni immagine purtroppo resta indelebile nella mente, ma quello che proprio non si può descrivere con parole umane è l’ascolto dei gemiti dei sepolti vivi. Quelle credo che nessuno abbia mai potuto dimenticarle».
Il terremoto fu anche la più grande prova di solidarietà nazionale che l’Italia abbia mai avuto. Vi aspettavate, voi giovani di una provincia dell’entroterra, l’arrivo di così tanti volontari?
«Nessuno di noi credo potesse aspettarsi la mole di persone che arrivò, è stata veramente la manifestazione di solidarietà nazionale più imponente che io ricordi. La prima notte fu drammatica perché eravamo soli, iniziarono ad arrivare i contadini con qualche zappa e qualche ruspa per provare a scavare e salvare qualcuno. Si scavava anche a mani nude nel buio. Anche al centro del paese era tutto crollato, compreso il palazzo del Comune. La mattina dopo iniziammo ad organizzare i primi soccorsi al campo sportivo, che era l’unico luogo accessibile in sicurezza, ed arrivarono i primi volontari da fuori. I primi furono gli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, nel pomeriggio poi arrivarono gli uomini della pubblica assistenza di Scandicci, i sindacati si mobilitarono immediatamente e anche il partito, ricordo quando arrivò Antonio Bassolino all’epoca segretario regionale del Pci. Mentre in altri comuni arrivò l’esercito, a Lioni nella prima fase ci fu molta autorganizzazione: arrivarono i giovani del servizio civile, gli studenti dei licei di Roma che giunsero insieme allora sindaco Petroselli, e poi le colonne dalla Toscana, dall’Emilia Romagna, da Bergamo. E un flusso di raccolte fondi inimmaginabili, basti pensare che l’associazione nazionale stampa riuscì a costruire un villaggio di prefabbricati in un mese e mezzo e a febbraio vi entrarono le prime persone. La tragedia si trasformò in un’occasione di incontro con tantissime altre realtà che produsse una voglia, all’interno della comunità lionese, di organizzarsi, di restare, di fare associazionismo».
Su quelle macerie nacque anche il consultorio femminile.
«Un mese dopo il terremoto inaugurammo il consultorio familiare. Quando arrivarono le prime quattro strutture mobili a disposizione del consultorio, anche con il personale medico già assegnato, decidemmo di metterli a disposizione di quelle famiglie con neonati o bambini molto piccoli per toglierli dalle tende dove con il freddo invernale non si stava certo bene. Ma quelle giovani mamme rifiutarono la nostra offerta, furono loro per prime a dire che erano disposte a resistere nella tenda pur di vedere aperto il centro socio sanitario e trovare lì le risposte necessarie per i più deboli. Non dimenticherò mai quei viaggi in jeep per recuperare i bambini disabili dalle campagne e portarli in ambulatorio. Stessa tenacia che ci portò ad avere, già nel 1981, l’asilo nido. Le donne ebbero un ruolo fondamentale nel dopo terremoto, se loro non fossero state così forti dai nostri paesi sarebbero scappati tutti dopo la tragedia e soprattutto non ci sarebbero stati servizi alla persona».
Quel giorno segnò le sue scelte future, Lei restò a Lioni e, anni dopo, ne divenne sindaco. Come è stato amministrare il comune terremotato?
«Scavando tra quelle macerie, insieme a quei ragazzi venuti da fuori per aiutare noi, compresi che se avessi lasciato Lioni avrei fatto la scelta sbagliata, avrei dato un messaggio errato. Decisi di restare e che la mia vita si sarebbe svolta in Irpinia. Iniziai a lavorare con il consultorio, insieme ai comitati, ed avendo anche una formazione sindacale decisi di impegnarmi su quel fronte. Nella mia formazione politica l’appartenenza ai movimenti e poi al Pci è stata fondamentale. Non è un caso che nelle istituzioni io ci sia entrata relativamente tardi, quando fui eletta nel’97 sindaco di Lioni. Il Comune aveva fatto bene, aveva adottato un piano di recupero per ricostruire lì dove si erano avuti i crolli, mantenendo l’identità del paese, aveva programmato l’area commerciale-artigianale per rimettere in moto le attività. Ma Lioni era rasa al suolo, era piena di prefabbricati. Quindi da sindaco la prima cosa che mi sono detta era che bisognava attivare il piano di zona sociale, cosa che facemmo con la prima giunta regionale Bassolino, e fornire servizi alla persona come il centro anziani, ma contestualmente avviammo il piano di smantellamento dei container. Il mio incubo era fare la fine del Belice: temevo che sarebbero rimasti lì a vita. C’erano chiaramente alcuni problemi da affrontare perché la 219 a chi era proprietario di case permetteva di ricostruire, ma chi non aveva una casa di proprietà sarebbe rimasto baraccato a vita. Quindi facemmo il piano sia per l’acquisto di nuovi alloggi che, non essendo crollati, avevamo potuto ristrutturare, sia per la costruzione ex novo per tutti coloro che non avevano casa. Dalla Regione ottenemmo 11 milioni di euro. Dovetti anche litigare con alcune famiglie che, paradossalmente, non volevano lasciare i prefabbricati perché nonostante fossero luoghi non certo agevoli da abitare, non pagavano le utenze ed in qualche modo si erano abituati. Fu dura convincerli, ma a tutti demmo la possibilità di avere un tetto sulla testa. Lioni oggi non ha più prefabbricati, ne è rimasto solo qualcuno nelle campagne ma è oggetto di un piano di smantellamento».
A quarant’anni di distanza che giudizio dà, complessivamente, alla ricostruzione in Irpinia?
«A parte quei paesi che hanno scelto di spostare totalmente il baricentro abitativo, penso a San Mango o Conza, perdendo così l’identità di quei luoghi, sulla ricostruzione privata, pur avendo avuto molto meno soldi del Friuli, tutto sommato si è lavorato bene. Lioni, Sant’Angelo, Morra hanno mantenuto il piano originario. Se c’è stato spreco, questo si è visto certamente sulle aree industriali. Era una sfida la fabbrica in montagna, ma bisognava limitarsi a pochi centri non aveva senso immaginare tanti nuclei industriali. Questo significò cementificazione, consumo di suolo, infrastrutture spropositate. E il modello di sviluppo non ha pagato visto che tante imprese venute dal Nord, presi i finanziamenti statali, poi sono andare vie lasciando sul territorio disoccupazione e cattedrali nel deserto. Bisognava invece investire di più sull’impresa locale. Se avessimo puntato di più sulle cooperative, sulla trasformazione dei prodotti agricoli, sul commercio, sull’artigianato, sulle aziende del territorio forse avremmo costruito un futuro diverso».
L’Irpinia che memoria ha di quel che è accaduto?
«Credo che fino ad una certa generazione si è mantenuta una memoria viva del terremoto. Ci sono ragazzi nati e cresciuti nei prefabbricati nei primi venti anni dal terremoto. Loro non potranno non potranno mai dimenticare gli effetti che il sisma ha avuto su lunga parte della loro vita. Le generazioni attuali restano un cruccio, mi chiedo sempre se siamo stati in grado di trasmettere una memoria capace di guardare anche al futuro. Non so darmi una risposta, anche se nella storia dell’Irpinia esisterà sempre per tutti un prima e un dopo il 23 novembre».
Nella foto Rosetta D’Amelio nel 1981, a pochi mesi dal terremoto, insieme ad alcuni volontari della Provincia e del Comune di Arezzo