Per quei 600mila italiani malati di Alzheimer (una stima destinata a crescere, visto l’invecchiamento della popolazione) c’è una novità epocale, dal momento che dal 2003 (quasi 20 anni!) non venivano lanciate nuove terapie in grado di arrestare la progressione della malattia. È stato approvato dalla FDA americana aducanumab, un farmaco contro l’Alzheimer che negli studi clinici ha dimostrato di poter essere efficace nelle forme iniziali della malattia, che beneficiano di una diagnosi precoce.
Si tratta di una molecola appartenente alla famiglia degli anticorpi monoclonali, gli stessi che vengono utilizzati da anni per curare i tumori, le patologie autoimmuni e sono in dirittura di arrivo anche per il Covid-19. Come agisce il farmaco? La parola al professor Alessandro Padovani, direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Brescia e socio fondatore di Airalzh, l’associazione no profit impegnata nel promuovere la ricerca sull’Alzheimer.
Come evolve la malattia e come funziona aducanumab
Tecnicamente, aducanumab è un anticorpo monoclonale diretto contro la proteina beta-amiloide, formulato cioè per contrastare la formazione e l’accumulo delle cosiddette placche amiloidi (o senili), responsabili del progressivo decadimento delle funzioni cognitive. Un processo irreversibile, che procede di pari passo con l’avanzare degli anni e può toccare tutti, dai 50 fino ai 90 anni e oltre.
L’età di insorgenza dei primi sintomi legati all’Alzheimer, infatti, è molto variabile. Alcune persone cominciano a manifestare vuoti di memoria e problemi di orientamento già dopo aver soffiato su 60 candeline. Altri, invece, mantengono la mente lucida fino a 80 e passa anni per poi iniziare a scordarsi il pranzo o la cena e a mostrarsi disorientati nel ritrovare la via di casa. «Purtroppo, l’accumulo di beta-amiloide si allarga a macchia d’olio conquistando via via diverse zone del cervello», prosegue il professor Padovani.
«Inizialmente sono interessati i neuroni della corteccia frontale e parietale. Poi, l’accumulo di beta-amiloide interessa gran parte della corteccia cerebrale, con effetti devastanti soprattutto sulla zona temporale che ospita delle strutture, come l’amigdala e l’ippocampo, indispensabili per l’apprendimento e la memoria».
Aducanumab è già usato in via sperimentale
L’idea di formulare medicinali diretti selettivamente contro la beta-amiloide non è una novità. Dall’inizio del 2000 la ricerca ha messo a punto diverse strategie per contrastare l’accumulo di beta-amiloide che però hanno dimostrato di avere scarsa efficacia. Aducanumab, anticorpo a bersaglio molecolare per il quale la FDA statunitense, alla luce dei risultati degli studi clinici, ha seguito una procedura di approvazione accelerata, è attualmente in fase di valutazione da parte dell’Ema (Agenzia europea per i medicinali).
A livello sperimentale, con studi in doppio cieco, il farmaco è però utilizzato in diversi centri clinici italiani già da alcuni anni. «Aducanumab è già stato somministrato nel mondo a oltre 2.000 pazienti, arruolati per tre anni in due grandi studi internazionali», spiega il professor Alessandro Padovani. «Risultato? Secondo alcune analisi non ancora pubblicate, è in grado di contrastare la formazione di nuove placche cerebrali arrivando, in alcuni casi, a ridurre quelle già esistenti.
L’azione è tanto più efficace quanto più il farmaco viene utilizzato in una fase precoce della malattia. Per questo è importante diagnosticare l’Alzheimer fin dai primi sintomi sospetti, onde evitare di arrivare al punto di non ritorno.
Gli effetti collaterali di Aducanumab
La seconda considerazione riguarda gli effetti collaterali», prosegue il professor Padovani. «In una percentuale variabile tra il 10 e il 30% dei casi, il trattamento con Aducanumab può comportare reazioni avverse, come infiammazione ed edema della corteccia cerebrale e, di rado, microemorragie cerebrali che impongono la sospensione del trattamento. Il paziente se ne accorge perché accusa confusione mentale, cefalea o capogiri. E in questi casi l’RMN cerebrale conferma il sospetto».
Insomma, occorre lavorare ancora per ottimizzare i risultati. Tant’è che i ricercatori di Biogen (azienda americana all’avanguardia nelle biotecnologie applicate alle neuroscienze) sono impegnati in una nuova sperimentazione clinica per ridurre al minimo gli effetti avversi e rendere il farmaco più fruibile per tutti. In questo momento in Italia l’arruolamento per partecipare alla sperimentazione è sospeso, ma riprenderà nei prossimi mesi.
Le novità per la diagnosi precoce dell’Alzheimer
Dimenticanze sempre più frequenti, disorientamento spazio-temporale, ma anche repentini sbalzi d’umore, depressione e scatti di aggressività. Sono questi i primi campanelli di allarme che richiedono una diagnosi precoce. Anche perché i mezzi non mancano e la diagnostica in ambito neurologico ha fatto passi da gigante.
Le novità più rilevanti? «Oltre alla risonanza magnetica cerebrale, il neurologo può prescrivere una Pet con particolari traccianti, simili ai mezzi di contrasto, che vengono iniettati per via endovenosa e che si legano alle placche di beta-amiloide», spiega il dottor Alberto Benussi, ricercatore dell’Università di Brescia, impegnato in ricerche finanziate da Airhalz.
«Un’altra tecnica diagnostica è la cosiddetta puntura lombare, tesa a prelevare e analizzare un piccolo campione di liquido cerebro-spinale. Se in esso la proteina beta-amiloide scarseggia, probabilmente si sta accumulando nel cervello.
La terza metodica di recente introduzione, per la diagnosi precoce dell’Alzheimer, è la stimolazione magnetica transcranica. Al paziente viene applicata in testa una bobina tramite la quale si inviano impulsi elettromagnetici al cervello. Dalla risposta che appare sul monitor si intuisce se alcuni neurotrasmettitori e circuiti neuronali risultano compromessi».
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