Di Monia Gaita
Siamo l’esercito dei senzalavoro,
viviamo alla giornata, come capita.
Una sigaretta dietro l’altra, gli occhi fissi nel vuoto.
Nessun intervento per noi,
nessuna attendibile ricostruzione.
Al sindacato domandano il telefono e la mail.
Ci avviseranno, rassicurano,
con cortesia convenzionale.
Le bollette sul mobile d’ingresso
hanno le spalle rivolte al muro.
Tra poco ci rovesceranno il contenuto in cifre
nelle mani.
Abbiamo il viso cosparso di malessere
e la stanchezza, fiera del suo equilibrio,
che afferra un nesso d’impotenza
e fa colare lacrime invisibili nel piatto.
Essere disoccupati
porta una specie di stigma di vergogna
sulla pelle.
C’è un boia a prendere gli appunti:
lo Stato ci ricusa pure la pensione.
Mancano i requisiti contributivi ed anagrafici.
I figli ignorano le leggi articolate del mercato
e forse ci considerano solo dei perdenti,
bicchieri rotti di un sistema
da cui siamo preclusi e allontanati.
La nostra voce non l’ascolta nessuno.
Potremmo chiuderci in una bottiglia
e dopo averla sigillata,
gettarla a mare.
Nessun soccorso,
nessuno che raggiunga a nuoto la terraferma.
Siamo spacciati.
Ci lasceranno cadere.
Gocce di sangue fresco irroreranno le maglie.
Saremo perquisiti e derubati ancora una volta.
I nostri cadaveri oltraggiati e coperti da un lenzuolo.
Ma il colpevole – di questo siamo consapevoli –
non verrà mai trovato.