Si contano i mesi (pochi) che ci separano dalla fine della legislatura e i giorni (cento, troppi) dal nostro amaro risveglio dal sogno della pace in Europa nel quale ci eravamo cullati per anni mentre gli incendi scoppiavano qua e là ai nostri confini senza che si riuscisse a mettere in piedi un credibile meccanismo di regolazione dei conflitti. Il Presidente della Repubblica ha colto l’occasione del 2 giugno, festa della Repubblica, per invocare una pace basata sull’”utilizzo della diplomazia come mezzo di risoluzione delle crisi tra Nazioni”. Ha anche elencato i requisiti necessari di una pace duratura: la volontà e l’impegno concreti degli uomini e degli Stati, il “rispetto delle persone e della loro dignità, dei confini territoriali, dello stato di diritto, della sovranità democratica”, dei diritti umani; e noi, senza voler interpretare il pensiero di Sergio Mattarella, ci sentiremmo di dire che mentre queste ultime sono le travi portanti di una costruzione duratura, il primo, la diplomazia, è il collante necessario per tenere in piedi l’intero edificio; e proprio il fallimento della diplomazia ha portato alla degenerazione della guerra, e oggi non riesce a immaginare, o imporre, una sua conclusione. Constatazione che ci porta a ragionare sull’altro capitolo dell’attualità, sulle ormai imminenti scadenze politiche e istituzionali e sugli attori che ne determineranno gli sviluppi. Il Governo, naturalmente, per primo. Un governo, quello guidato da Mario Draghi, nato per volontà del Capo dello Stato per attraversare il guado di un’emergenza straordinaria, un governo che ha superato più o meno brillantemente ma non ancora definitivamente la pandemia, garantendo all’Italia il rispetto degli impegni assunti con l’Europa, il che ci consentirà di beneficiare di ingenti sostegni finanziari indispensabili per la nostra ripresa economica; ma un governo che ora sembra quasi arenarsi di fronte all’imprevisto dramma della guerra e della sua imprevedibile durata. Un governo che avverte i limiti della solidarietà nazionale, che ne ha garantito la nascita ma che è fatalmente destinata a sciogliersi in vista delle elezioni. A volte sembra sopravvivere a se stesso, grazie al prestigio di Draghi e alla legittimazione del Quirinale, perché se dipendesse dalla maggioranza, forse sarebbe già caduto. Le scadenze si sgranano l’una dopo l’altra con fare minaccioso. L’appuntamento più a rischio potrebbe essere quello del 21 giugno, legato alla guerra e all’invio di armi all’Ucraina. E’ probabile che non succederà nulla di irreparabile, anche perché se l’avvocato Conte volesse andare veramente alla conta probabilmente capirebbe presto che in pochi dei suoi lo seguirebbero, e forse anche per fare un partito tutto suo è troppo tardi. Quanto alle presunte minacce di Salvini – l’altro partner sempre più a disagio nella maggioranza – giocando a fare il demiurgo della pace si è cacciato in un guaio dal quale difficilmente uscirà intero. Tutto a posto, allora, per Draghi? Non proprio. I più recenti indicatori economici dicono che l’emergenza sociale sopravvivrà a quella sanitaria e a quella bellica che la stanno alimentando. Gli ultimi dati sono frustranti, oltre che allarmanti: non c’è solo l’inflazione tornata ai livelli di 35 anni fa; ci sono i salari, che in Italia dal 1990 ad oggi sono diminuiti di quasi il 3% in termini reali mentre sono cresciuti del 6% in Spagna, del 31 in Francia, del 33 il Germania. Insomma, da noi le diseguaglianze crescono e il disagio potrebbe esplodere da un momento all’altro. Forse sarà questa la prossima vera emergenza, e nessuno sembra avere la ricetta miracolosa per superarla.
di Guido Bossa
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