Sindrome di Benson: cos’è la variante atipica dell’Alzheimer

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Non facciamo di tutta l’erba un fascio, neppure quando si tratta di salute. Ci sono sintomi che non indicano necessariamente la presenza di un’unica patologia, perché talvolta sono comuni a condizioni simili ma diverse tra loro. È il caso della sindrome di Benson, nota anche come atrofia corticale posteriore, una malattia neurodegenerativa considerata una variante atipica dell’Alzheimer.

«Rispetto a quest’ultimo, è molto più rara e comporta un deficit cognitivo più circoscritto», spiega il dottor Domenico Mele, neurologo presso l’Ospedale Regina Apostolorum di Albano Laziale, Roma. «Dal punto di vista fisiopatologico, il meccanismo alla base è lo stesso: nel cervello si accumulano due proteine, la beta-amiloide e la tau-iperfosforilata, fino a formare placche in grado di danneggiare i neuroni. Nella sindrome di Benson, però, questo accumulo anomalo si limita alla zone posteriori del cervello, quelle occipitali, la cui attività principale è elaborare la visione».

Cos’è la sindrome di Benson

L’atrofia corticale posteriore, descritta per la prima volta nel 1988 dal dottor D. Franck Benson, ha un esordio più precoce rispetto alla malattia di Alzheimer, perché colpisce già intorno ai 40-50 anni. «La causa sembra essere geneticamente determinata, cioè è scritta nel Dna: nel 5 per cento dei casi, la mutazione genetica responsabile viene ereditata dagli avi, mentre in tutti gli altri casi è di nuova insorgenza, magari in risposta alle sostanze tossiche o inquinanti con cui entriamo in contatto ogni giorno». Non a caso, la prevenzione della sindrome di Benson (che non azzera il rischio, ma può comunque aiutare) si basa su un corretto stile di vita: curare l’alimentazione, praticare una regolare attività fisica, abolire il fumo di sigaretta e mantenersi attivi mentalmente.

 

Come si manifesta

In genere, la sintomatologia iniziale della sindrome di Benson porta i pazienti a rivolgersi all’oculista, che però non rileva difetti o disturbi: «Eppure, nonostante l’occhio sia sano, c’è un’alterata percezione del mondo circostante. I pazienti hanno difficoltà a riconoscere persone oppure oggetti familiari, nel senso che non riescono ad associare il nome oppure la funzione, perché è compromessa la capacità del cervello di analizzare ciò che l’occhio capta e poi rimanda», spiega il dottor Mele.

«Altri tipici problemi di visione sono la difficoltà nel percepire la corretta distanza a cui si trovano gli oggetti oppure le piccole sfumature, come quelle di una porta a vetri. Con il passare del tempo, la capacità di analisi del lobo occipitale si riduce progressivamente: a quel punto, l’elaborazione visiva diventa sempre più difficoltosa e può subentrare un declino nelle abilità di alfabetizzazione, tra cui la lettura, la scrittura e l’ortografia».

Ovviamente, ogni quadro clinico è diverso: ci sono forme dove l’atrofia si allarga anche ad altre regioni cerebrali, per cui possono subentrare ulteriori sintomi: «Per esempio, quando vengono coinvolte le aree frontali e temporali del cervello, si associano ansia, depressione, apatia, trascuratezza e comportamenti impulsivi».

Come si diagnostica

Fino a qualche anno fa, stabilire la presenza di accumuli proteici era possibile solamente attraverso un’invasiva biopsia cerebrale oppure post-mortem, mediante un’autopsia del cervello, mentre oggi sono disponibili una vasta gamma di indagini già in fase di diagnosi. «L’esame più semplice è la risonanza magnetica nucleare dell’encefalo, che mostra l’eventuale atrofia della porzione posteriore della corteccia cerebrale. Meno sfruttata, ma altrettanto valida, è la Pet cerebrale che sfrutta un radiotracciante specifico per la proteina beta-amiloide, cioè un farmaco radioattivo che ricerca la presenza di placche di amiloide nelle zone di interesse», racconta il dottor Mele.

A queste indagini vanno associati un esame obiettivo del paziente, dei test cognitivi e spesso un dosaggio delle proteine beta-amiloide e tau-iperfosforilata, possibile attraverso un prelievo di liquor, o fluido cerebrospinale, con una puntura lombare». Attualmente, è allo studio un metodo per dosare direttamente nel sangue, con un semplice prelievo venoso, i livelli di BD-Tau, cioè la proteina Tau derivata dal cervello: un giorno potrebbe sostituire l’analisi del liquido cerebro-spinale e consentire diagnosi sempre più precoci.

 

Come si tratta la sindrome di Benson

Esattamente come nell’Alzheimer, la tempestività diagnostica è fondamentale per avere dei vantaggi terapeutici, anche se non esiste ancora una cura definitiva per queste forme di demenza. «Possiamo comunque rallentare la degenerazione del cervello con dei farmaci che “mimano” l’azione dell’acetilcolina, un neurotrasmettitore prodotto dai neuroni che l’Alzheimer e la sindrome di Benson attaccano e distruggono, oppure contrastando le elevate concentrazioni di un altro neurotrasmettitore, il glutammato, i cui alti livelli sono dovuti alla perdita dei neuroni corticali», conclude il dottor Mele. «La ricerca scientifica è al lavoro per trovare nuove soluzioni, come anticorpi monoclonali che vadano ad agire non soltanto sui sintomi, ma anche sulla malattia, evitando l’accumulo di proteine tossiche e la neuro-infiammazione che ne deriva».

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