E’ stato Enzo Bettiza a sintetizzare con la parola “Esilio” il peso di una pagina di storia a volte oscurata dalla terribile tragedia delle foibe, nelle quali, al culmine di violenze anti italiane, furono eliminate migliaia di persone. Nel libro, dal titolo Esilio, lo scrittore, nato a Spalato in Croazia nel1927, coinvolto nelle vicende della costa balcanica, confessa di essere da sempre un esule “prima ancora di essersi allontanato dalla sua terra, sempre in bilico perplesso fra genitori, nonni, zii, cugini, amici, amiche, servi di diversa nazionalità, sempre precario in una terra nella quale i risentimenti e i contrasti nazionali erano diventati l’acido pane quotidiano di cui si nutrivano i suoi irrequieti abitanti.”
Acido pane quotidiano e risentimenti che vediamo presenti oggi in tanti angoli di mondo pronti a trasformarsi come allora in violenza! Di qui l’obbligo morale che abbiamo noi, che siamo nati dopo, di” resistere all’abbraccio dell’amnesia” e di” prestare attenzione…senza”scordare i sommersi” di ogni popolo e etnia. Dobbiamo dunque leggere in quella diaspora le tante diaspore attuali dalle quali ci sentiamo lontani, ricordando come alla fine della seconda guerra mondiale, siano giunti anche da noi uomini e donne in fuga dal nostro Nord Est.. Dopo Zara, abbandonata nel 1944 anche in seguito alle incursioni aeree anglo-americane, fu la volta infatti di Fiume, occupata dagli jugoslavi fin dalla primavera del 1945, poi di Pola e di altre cittadine dell’Istria orientale e meridionale ad alimentare un esodo inarrestabile. Ultimi a fuggire furono gli abitanti della zona “B” del mai costituito territorio libero di Trieste, che non si erano mossi inizialmente nella speranza che i negoziati internazionali li restituissero all’Italia. Quando alla fine del 1953 fu chiaro che il dominio jugoslavo era divenuto irreversibile, scattò la decisione collettiva di partire. Divenne così “un’abitudine vedere i soliti camion traballanti di povere masserizie lasciare Umago e Buje e dirigersi alla volta di Trieste…Ecco tutti partivano. Alla sera si parlava con un amico all’osteria…e lui che diceva sempre -morire si, ma a casa mia- di colpo già lo trovavi cambiato un poco anche lui, e la mattina dopo sapevi che era andato ad Umago a presentare la domanda di opzione. Fu come una grandinata…” (Fulvio Tomizza da Materada). Un esodo volontario, continuo nel tempo, che coinvolse anche un gran numero di soggetti di nazionalità incerta! A spingere quegli uomini e quelle donne a prendere la via dell’esilio concorsero varie motivazioni: la paura delle stragi del 1943 e del 1945, l’eliminazione progressiva dei punti di riferimento del gruppo italiano come la scuola e la chiesa, l’imposizione di nuovi valori e di una nuova lingua. Di qui la fuga e l’arrivo in Italia! Ricercare però le tracce del loro arrivo in Irpinia nel primo decennio del dopoguerra non è stato semplice. Gli archivi, una delle più serie fonti di ricerca, si sono rivelati scarni di notizie! Nei vari settori consultati solo qualche atto prefettizio chiede conto ai sindaci dei comuni irpini della presenza di quelli che per qualche tempo venivano chiamati “allogeni”, un termine burocratico percepito come offensivo, perché rilevava la tendenza a negare l’italianità di popoli che da secoli si erano sentiti veneti ed italiani. Scarne, quasi nulle le risposte della prefettura di Avellino. Fugaci gli accenni ad un problema che non doveva essere di poco conto se lo stesso ufficio nel 1944, in una nota al comune di Conza, stabiliva che l’ospitalità doveva essere obbligatoria, che i profughi dovevano essere ospitati con letti, che ogni difficoltà doveva essere rimossa e nessuna ragione in contrario poteva essere presa in considerazione (R .Prefettura di Avellino n. 2407/56). Nelle carte conservate troviamo anche la definizione precisa della qualità di profughi. Erano profughi “coloro che per ragioni di guerra erano stati costretti a lasciare la loro normale residenza in Italia e che per ragioni di guerra non potevano farvi ritorno”. In particolare i residenti alla data 10 giugno 1940 in territori “sui quali per effetto del trattato di pace è cessata la sovranità dello Stato Italiano”, e coloro che erano stati “costretti dopo l’otto settembre 1943 ad allontanarsene o non potevano farvi ritorno in conseguenza ad avvenimenti di carattere bellico o politico (profughi giuliani, polesini, dalmati)”. Per i capi famiglia erano previsti precisi sussidi (un massimo di 25 lire per ognuno, 5 lire per ciascun componente la famiglia) e quantità di razioni supplementari di vitto da consegnare gratuitamente. Venivano organizzati anche organi per l’assistenza, dall’Alto Commissariato agli Uffici Provinciali, dai Comitati Provinciali ai Comitati Comunali. Non mancavano inviti perché i profughi istituissero una “loro cucina comunale ed anche una loro cooperativa per l’acquisto e la distribuzione di generi in natura”. (Alto Commissariato per i Profughi di Guerra n. 1177 24 aprile 1945).
A queste note generiche si accompagnano richieste più specifiche sulle masserizie depositate nei magazzini di Venezia, Tirrenia, Bari, Messina. Su tale problema, in una nota al comune di Monteforte, l’Ufficio Provinciale dell’Assistenza Pubblica di Avellino chiede che venga comunicato se i profughi giuliani che dimorano in quel comune hanno masserizie depositate nei magazzini ACOMIN di Venezia, “tanto perché l’Ufficio Provinciale dell’Assistenza Pubblica di Venezia provveda a trasferirle presso il magazzino deposito di Tirrenia (Pisa)”.
Masserizie, colli, “res derelictae” nell’emergenza totale dell’esodo, disperse come i loro proprietari ammassati in centri di raccolta “fatti di androni spogli di caserme, di villaggi improvvisati nel mezzo di campi sportivi, in stanze ritagliate tra assi di legno, cataste di cartone, coperte di lana”!
Di quei campi, che pure vi furono da noi, pochi accenni nei ricordi privati! “Si, ricordo, a Capodimonte a Napoli nei giardini! Ho qualche foto…ad Avellino, nei locali semidistrutti dal bombardamento dell’attuale ospedale di viale Italia! Ricordo sfollati e profughi ammassati insieme”.
Sulla stampa irpina una serie di località che ospitano i campi: S Antonio, Pagani, Capua, Aversa, Bagnoli ed una descrizione precisa sul Corriere dell’Irpinia del 5 maggio 1953! Un viottolo di campagna tra orti e giardini, porta al campo profughi di Mercatelli. Cinquanta baracche militari di lamiera ondulata, costruite su un basamento di muratura, sul cui retro i profughi hanno improvvisato, con graticci di canne e fiori rampicanti, dei pergolati. Il giornalista ci informa che in quel campo tra i 321 profughi d’oltre cortina in attesa di espatrio, albanesi, apolidi, russi…, sono ospitati anche 37 profughi della Venezia Giulia. Di loro nessuna notizia, né nota personale.
Solo sul Progresso Irpino del 25 novembre del 1954, il giornalista, Filippo Visconti, affronta il dramma delle “nostre sorelle minori, le gemme del mare” e rivolge un pensiero “ai profughi, ai volontari esuli che silenziosamente piangono, guardando i beni, le case, i morti, che si lasciano dietro”, aggiungendo che “questo svuotarsi di paesini della zona A, in procinto di passare all’amministrazione jugoslava, questo trasferirsi di vecchi, donne, giovani, bambini di ogni ceto sociale, questo disperato, appassionato esodo…è la più severa condanna del nefasto Memorandum d’Intesa.”
Silenzio, rimozione anche sul processo di integrazione che però non pose fine al dolore di quanti, per salvare la propria famiglia, avevano scelto l’ignoto! L’ignoto: i campi di smistamento prima, i centri di raccolta poi, infine la meta definitiva, dove tra i tanti problemi vi fu anche quello dei figli, “altri dai loro padri”, distratti, lontani dal loro spaesamento e dalla loro malinconia, feriti a volte dalle risatine soffocate dei compagni quando una maestra poco sensibile ed attenta, leggendo in classe con difficoltà il cognome di uno di loro esclamava: “Ma che razza di nome hai? Sei turco?”
Brandelli, frammenti di un secolo feroce che sembra di nuovo in Europa riproporre gli spettri dei nazionalismi del Novecento, mentre ovunque, nelle grandi città come nei paesi più isolati, si sovrappongono storie, nazionalità e culture diverse.
Gaetana Aufiero
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