di Franco Festa
Forse è il tempo della speranza. Forse Avellino può farcela a chiudere la pagina buia che vive da anni, a scegliere una strada nuova.
E’ un’affermazione folle? A prima vista lo può sembrare.
Oggi la città è ferma in una dimensione asfittica, imprigionata nello schema che il sindaco Festa ha costruito con pazienza in questi anni, tutto fondato sulla fantastica sorpresa, sull’annunciazione, sul racconto di un futuro meraviglioso.
E sul superamento, sull’archiviazione di ogni forma di democrazia, ritenuta un fasti- dio, un appesantimento, rispetto all’appello diretto al popolo, tutto giocato sui social, sulle foto di sé in primo piano, sui comunicati trionfalistici. Un sistema perfetto, ma vuoto, perché nasconde la direzione di marcia.
Che non è e non può essere, ovviamente, quello delle feste e festini tutto l’anno, come pure si vorrebbe far credere, (non parliamo per carità di patria dell’invenzione dell’ultimo minuto, di una sconosciuta nominata assessora al nulla) ma che è invece quello delle nuove opere pubbliche, dei nuovi interventi sul territorio.
Il recente consiglio comunale, sul mega centro commerciale con stadio annesso, ne è stato la dimostrazione. E il livello incredibilmente volgare che ha caratterizzato le affermazioni di minaccia a una consigliera del presidente Maggio ne è stato il corollario.
A proposito: esiste un prefetto in questa provincia, che di fronte a dichiarazioni così scandalose assume le minime misure per ripristinare la democrazia offesa?
La città assiste a questa rappresentazione con una maggioranza di cittadini qualche volta plaudente, quasi sempre silenziosa, ripiegata sui propri affari, che lascia fare purché la si lasci fare, e una minoranza che finalmente prova a superare le proprie divisioni e a ritrovare una voce unitaria di opposizione.
E’ questa l’unica novità in un vecchio schema, che ha caratterizzato Avellino da molti anni. Quella che in Sicilia viene definita “borghesia mafiosa” qui assume le forme, meno gravi sul terreno penale, ma simili su quello etico, della com- piacenza al potere, al massimo del borbottio sotto voce, o della relazione diretta, spesso inconfessata, con la macchina pubblica dispensatrice di prebende.
Certo, tantissime cose sono diverse, soprattutto l’agonia di un ceto politico che pensa solo a se stesso, tranne poche eccezioni. Ma resta quella sensazione di vivere in un luogo con il fondo limaccioso, quella di un posto immobile e perduto in cui tutto cambia perché nulla cambi, che la città trasferi- sce immediatamente.
Dov’è dunque la speranza?
Due sono le possibili direttrici: la prima è un diffuso ceto imprenditoriale, con punte di assoluta eccellenza, che prova a mettersi in gioco, a farcela da solo. Se ne scoprono i primi segni in tutti i settori, quello dell’ enologia, dell’informatica, delle comunicazioni, della ristorazione, delle associazioni legate al sociale, della piccola impresa, dello sviluppo legato al turismo e alla cultura, a ciò che i luoghi sono capaci di offrire (penso, in città, alle ricchezze archeologiche e ai cammini segreti del centro storico).
Sono piccoli tentativi che spesso resistono a fatica, che difettano di fondi, ma che in generale hanno imparato a utilizzare tutto ciò che le moderne tecnologie pongono a disposizione e hanno deciso di investirci su, puntando su un fatto semplice: oggi Internet ha creato le condizioni affinché ogni punto, in grado di fare un’offerta inte- ressante, possa essere il centro, al di là della sua reale posizione geografica. E dunque ciò che conta davvero è la qualità dell’offerta, il suo saper essere al passo con le esigenze dei tempi.
La seconda nuova variabile della speranza è la popolazione giovanile. C’è in tutti i giovani una nuova intelligenza, una nuova consapevolezza, una nuova conoscenza del mondo, una nuova capacità di mettersi in gioco, per costruire il proprio futuro. Disgraziatamente il risultato più diffuso è che tantissimi vanno via, tantissimi vanno a studiare o a lavorare altrove – l’assenza di intere generazioni si avverte drammaticamente – ma ciò che è veramente tragico è che a chi rimane viene offerto, al di là della sua formazione culturale e professionale spesso notevole, un avvenire di fame o vicino alla schiavitù.
Così le due speranze, un nuovo ceto imprenditoriale e una nuova giovinezza, al posto di diventare alleati in un processo di rinascita della città e della provincia, diventano nemici, in una vergognosa tenaglia “mors tua vita mea”.
Qui la città e in generale il Mezzogiorno mostrano la loro faccia più feroce, e mentre ci si chiude nel solito piagnisteo dell’abbandono, non si riesce a costruire la strada di una autonomia meridionale fondata sulle sue risorse, sulle sue forze e su nuove alleanze tra i ceti e le classi sociali.
Sarà complesso e difficile uscire da questa situazione, perché l’economia del sottosviluppo è terra di dominio e di arricchimento di tanti, ma ciò che davvero conto è che, finalmente, qualcosa si muove.
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