Che cosa hanno in comune Violetta de La Traviata e Mimì de La Boheme? Eroine del melodramma, entrambe sono morte di tubercolosi, quel “male sottile” che non appariva all’esterno (tranne qualche fazzolettino striato di sangue) ma che divorava i polmoni da dentro. Stessa sorte crudule toccò a molti personaggi di Zola, di Thomas Mann, di Verga e della letteratura russa.
La tisi, infatti, non guardava in faccia a nessuno, accumunando ricchi e poveri, giovani e vecchi, personaggi letterari e figure storiche realmente esistite come Chopin, Orwell e Kafka. Ma se pensi che parlare di tubercolosi equivalga a sfogliare un romanzo dell’800 sbagli di grosso. Il Mycobacterium tubercolosis, noto come bacillo di Kock dal nome del medico tedesco che lo scoprì nel 1882, è ancora tra noi e continua a mietere vittime. E ogni 24 marzo si celebra la Giornata mondiale della tubercolosi, sia in memoria del giorno in cui avvenne la scoperta 140 anni fa, sia per sensibilizzare l’opinione pubblica su una patologia che non è archiviata ma rappresenta un’emergenza ancora attuale, rientrando tra le prime dieci cause di morte nel mondo e tra le più gravi infezioni croniche, seconda soltanto all’Aids.
Qualche dato? Nel 2020 si stima che siano state 10 milioni le persone che abbiano ricevuto la diagnosi di tubercolosi polmonare (circa 28.000 nuovi casi al giorno), di cui 33.148 casi solo in Europa. In Italia c’è stata una recrudescenza tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, in concomitanza con la duffusione dell’Hiv, al punto da indurre gli esperti a parlare di “malattia di ritorno”. Ora la situazione si è stabilizzata: nel 2019 i nuovi casi riportati dall’Istituto Superiore di Sanità sono stati 3.346, nel 2020, invece, 2287, pari a 3,8 persone ogni 100.000 abitanti. Segno che la malattia ha ancora un grosso impatto sulla società, anche perché raramente viene diagnosticata ai primi sintomi.
Ecco come riconoscere e curare questa subdola infezione che si trasmette tramite goccioline di saliva, in seguito a colpi di tosse, sputi e starnuti (il famoso droplet che abbiamo imparato a conoscere con il Covid).
Tubercolosi, presta attenzione ai sintomi
«A prima vista può sembrare una bronchite ma i sintomi perdurano molto più a lungo, facendo sorgere il dubbio che si tratti di qualcosa di più grave. Tosse persistente che dura da più di tre settimane, spesso secca ma anche catarrale, con muco giallo-grigiastro e, a volte, presenza di sangue nell’espettorato (emottisi)», premette il professor Marco Confalonieri, docente di pneumologia e fisiopatologia respiratoria all’Università di Trieste.
«Inoltre compare la febbre, non elevata ma costante nelle ore serali, stanchezza cronica, debolezza muscolare, sudorazioni notturne, dolore toracico e senso di oppressione al petto e dispnea, cioè l’affanno e il fiato corto anche per salire tre gradini. Altri segnali possono essere il pallore del volto, la perdita di peso per mancanza di appetito e la presenza di linfoadenopatia, cioè di linfonodi ingrossati sotto la mandibola o nel cavo ascellare».
La compresenza di questi sintomi deve indurre nel medico di base il sospetto di infezione tubercolare, da confermare con opportuni accertamenti.
Tubercolosi, gli esami da fare subito
Un tempo il principale mezzo di screening per individuare l’infezione da Tbc era il test cutaneo della tubercolina (detto anche test di Mantoux), che fino agli anni ’70 veniva fatto di routine alle scuole elementari. Consiste nel fare una piccola scarificazione nella parte interna dell’avambraccio per iniettare una modestissima quantità di “derivato proteico purificato” del Bacillo di Koch. Si osserva quindi la risposta cutanea e, se entro 48-72 ore non compare alcuna reazione, il test è negativo. Viceversa, se compare un pomfo gonfio è arrossato, il test e positivo: significa che il sistema immunitario è già venuto a contatto con il bacillo di Kock, anche se il test non discrimina tra infezione latente e attuale.
«Il 90 per cento delle persone che contraggono il germe, infatti, non sviluppano la malattia, non hanno sintomi e perciò non sono contagiose», spiega il professor Confalonieri.
«L’infezione può rimanere asintomatica per tutta la vita oppure la persona può sviluppare la tubercolosi anche 20 o 30 anni dopo l’avvenuto contagio. In caso di test positivo, bisogna comunque escludere una malattia attiva nei polmoni, grazie a una radiografia ed eventualmente anche una Tac torace. Oggigiorno però il test della tubercolina, benché venga ancora eseguito, è stato quasi del tutto superato da uno analogo sul sangue che non solo è più preciso ma permette anche di quantificare la risposta immunitaria agli antigeni specifici della tubercolosi. Mi riferisco a un esame di laboratorio chiamato Quantiferon, effettuato con un prelievo: misura la quantità di una particolare citochina infiammatoria, denominata interferon gamma, che viene liberata dai linfociti T (cellule del sistema immunitario) quando vengono stimolati con due specifici antigeni del batterio in questione».
Tuttavia, in caso di esito positivo, neppure il Quantiferon riesce a dirci se si tratta di un’infezione latente o attiva. Il verdetto definitivo verrà stilato dal pneumologo sulla base dei sintomi clinici riportati dal paziente, della rx torace (o della tac) e degli esami microbiologici.
«Insisto sulla necessità di avere sempre un riscontro oggettivo della presenza del bacillo di Koch, attraverso l’esame dell’espettorato o del materiale prelevato nelle basse vie aeree durante una broncoscopia», precisa l’esperto. «Non solo il riscontro microbiologico consente di fare una diagnosi sicura al 100%, ma permette di scoprire tempestivamente eventuali resistenze ai farmaci antibiotici che costituiranno il cardine della terapia».
Ad ogni buon conto, radiografia e tac al torace mostrano la “firma” della tbc, cioè i tipici segni che compaiono nei lobi polmonari superiori: noduli granulomatosi-infiammatori bilaterali (presenti in entrambi i polmoni), bronchiectasie, cioè la dilatazione abnorme dei bronchi e, nelle fasi della malattia più avanzate, lesioni cavitarie. Come delle caverne scavate dal batterio all’interno dei polmoni, che portano a ristagno del catarro e alla progressiva e invalidante difficoltà di respirazione, per la grave compromissione degli scambi gassosi tra ossigeno e anidride carbonica.
La terapia combinata per la tubercolosi
Il bacillo di Koch è insidioso e difficile da debellare perché per sopravvivere sviulppa naturalmente dei meccanismi di difesa nei confronti del sistema immunitario. Per questo un solo antibiotico non basta a ottenere la sua eradicazione ma occorre schierare in campo una task force di 3-4 antibiotici da assumere tutti i giorni contemporaneamente, dopo aver verificato con l’antibiogamma che il batterio isolato nel paziente sia effettivamente sensibile alla loro azione (altrimenti si prescrivono altri tipi di molecole antibiotiche).
«La terapia va personalizzata in base al quandro clinico», afferma Marco Confalonieri. «In genere, nella cosiddetta fase di attacco che dura due mesi, il regime terapeutico più utilizzato si chiama RIPE, acronimo di rifampicina, isoniazide, pirazinamide ed etambutolo. Dopo due mesi si può proseguire solo con rifampicina e isoniazide, che vanno presi continuativamente per almeno sei mesi. Nelle forme iniziali di infezione, quando il danno ai polmoni è limitato, si può fin dall’inizio prescrivere una combinazione di tre antibiotici: gli stessi già menzionati ma senza l’etambutolo. In ogni caso, si tratta di un periodo di assunzione molto lungo che può scoraggiare i pazienti, anche per la comparsa di reazioni avverse legate all’effetto-accumulo degli antibiotici nel corso del tempo».
Nel caso in cui l’antibiogramma riveli che il batterio non è sensibile alla terapia standard, si possono usare degli antibiotici alternativi, appartenenti alla classe dei fluorochinolonici e degli aminoglicosidi. Oppure si può optare per molecole di più recente introduzione, come la bedaquilina, il petromanid e il delamanid, indicate in caso di resistenze multiple. La spinosa questione dell’antibioticoresistenza, infatti, è un fenomeno in drammatico aumento al punto che l’OMS ha recentemente dichiarato che sarà la prima causa di morte nel 2050. Un fenomeno che è costantemente monitorato da Epicentro, il portale di epidemiologia dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità).
Lo sviluppo di “superbatteri” resistenti al trattamento farmacologico riguarda infatti tutte le gravi infezioni batteriche, compreso la tubercolosi, e alcuni pazienti manifestano una multiresistenza, non rispondendo a diverse classi di antibiotici. Circa l’1% dei pazienti affetti da tubercolosi va incontro a insuccesso terapeutico, proprio per questo problema emergente. A volte ciò dipende dal fatto che i farmaci non vengono assunti correttamente, con costanza e secondo la posologia indicata dal pneumologo o dall’infettivologo: sospendere il trattamento di testa propria o saltare un antibiotico spiana la strada alle resistenze. La sfida attuale consiste nello sviluppo di nuovi antibiotici che, usati appropriatamente, possano invertire l’attuale tendenza e le nere previsioni dell’OMS.
Antibiotici, occhio agli effetti collaterali
Gli antibiotici usati per il trattamento delle infezioni polmonari, prescritti per almeno 6 mesi consecutivi, possono dare fastidiosi effetti collaterali. Ecco i più comuni:
- Rifampcina: mal di testa, capogiri, nausea, vomito, alterazione dei livelli degli enzimi epatici.
- Isoniazide: intorpidimento e pizzicore a mani e piedi, eruzioni cutanee, mal di gola, ghiandole gonfie, lividi, rialzo delle transaminasi.
- Pirazinamide: aumento dell’acido urico, rischioso soprattutto per chi soffre di gotta, alterazioni della funzionalità epatica.
- Etambutolo: nausea e disturbi allo stomaco, dolore agli arti, rash cutaneo e disturbi del campo visivo in quanto la sua assunzione prolungata può danneggiare il nervo ottico.
- Fluorochinolonici: in rari casi, mal di testa, vertigini, sonnolenza, disturbi della memoria e della capacità di concentrazione, depressione, lesioni del tendine di achille.
- Aminoglicosidi: comparsa di acufeni e perdita dell’equilibro, calo dell’udito legato al fatto che sono ototossici. Rari casi di necrosi tubulare renale.
Tubercolosi, in sperimentazione nuovi vaccini
L’unico vaccino antitubercolosi esistente è quello composto dai batteri tubercolari, vivi attenuati, di origine bovina (BCG o bacillo di Calmette-Guérin) che ha il vantaggio di essere somministrato in un’unica dose e di essere privo di alluminio. In Italia la vaccinazione non è più obbligatoria da molti anni, ma resta tale nei Paesi poco sviluppati dove l’infezione è ancora endemica. La sua efficacia è pari all’80 per cento nel prevenire le forme gravi infantili, ma risulta inefficace nell’età adulta. Considerata la vasta diffusione della TBC a livello globale, sono attualmente in fase di sperimentazione nuovi vaccini destinati agli adulti.
Tubercolosi, l’infezione latente va curata?
L’infezione latente di tubercolosi va curata? È questa la preoccupazione di chi, nel corso di accertamenti, scopre di essere positivo al test cutaneo della tubercolina o al Quantiferon. «La risposta è no. Oltre a non essere contagiosa, l’infezione latente va curata solo in due casi: il contatto stretto con parenti affetti da tubercolosi, sia recente sia attuale, e la presenza di pazienti immunodepressi o che assumano farmaci immunosoppressori», risponde il professor Marco Confalonieri. «In tutti gli altri casi si può stare tranquilli e non è necessario iniziare alcun trattamento antibiotico».
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