Giustizia e dintorni: il peccato originale? Un processo ingiusto

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 La decisione della Suprema Corte francese di negare l’estradizione verso l’Italia dei dieci terroristi riporta alla luce la questione dell’incompatibilità del nostro processo, per tanti, troppi lunghi decenni, con il valore dell’equità contenuto nelle Carte internazionali dei diritti fondamentali dell’Uomo.

Lasciando da parte il secondo dei motivi – quello relativo al notevole tempo trascorso rispetto ai fatti, a fronte della lunga inerzia dello Stato italiano e del consolidarsi di una vita familiare in Francia da parte dei condannati – la violazione del “giusto processo”, per come declinato nell’art. 6 della Convenzione europea, l’ha fatta da padrone.

Dalle nostre parti, dopo l’entrata in vigore della Costituzione e fino a qualche anno fa, il sistema giudiziario ha ritenuto di poter irrogare condanne nei confronti di cittadini assenti perché inconsapevoli della formulazione di un’accusa e della pendenza di un giudizio.

Per oltre ottant’anni, abbiamo dunque celebrato, e tollerato, “processi ingiusti”, basati su presunzioni, la peggiore delle quali era proprio rappresentata dalla consapevole finzione dello Stato circa la conoscenza dei presupposti da parte degli imputati.

Nel frattempo, tronfi di una solo chiacchierata “equità processuale”, abbiamo continuato a trattare processi ingiusti e ad emettere condanne ancor più inique, perché riconosciute dalle Corti europee in violazione di diritti fondamentali dell’Uomo.

Per alcuni tutto ciò sarebbe solo una dimostrazione della supponenza dei nostri vicini. Per altri, compreso me, è solo la prova di una delle tante manifeste deficienze della Giustizia italiana.


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