«Perché abbiamo ancora bisogno della filosofia»

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Siamo sommersi di informazioni. Accendiamo il cellulare e sappiamo cosa sta succedendo a Dubai, che tempo ci sarà tra due ore, come sta aumentando la popolazione cinese e a quanto dista l’ultimo asteroide che sta per colpire la terra. La tecnologia ci induce a credere di essere onniscienti. Non solo: risolve anche ogni piccola questione pratica in qualche secondo. Dove si mangia la miglior pizza a Napoli? Dov’è la farmacia più vicina? La potenza degli algoritmi ci induce a credere di non aver più bisogno della filosofia. Sbagliato. «Perché Siri può senz’altro portarti nella migliore pizzeria italiana, ma solo Epicuro può insegnarti a gustarla davvero», sostiene Eric Weiner, scrittore e “divulgatore filosofico”, che nel suo libro Socrate Express (Bompiani editore, 22 €) parla degli effetti benefici della filosofia.

«La filosofia può aiutarci a vedere la vita con uno sguardo differente. È una vera medicina per l’anima ma se dovessi fare un paragone, non è un massaggio rilassante, bensì una sessione di allenamento. La filosofia non è facile né piacevole. Richiede impegno perché ci aiuta a sviluppare il pensiero critico. Google, YouTube e, ora, i Bot dell’Intelligenza Artificiale che pensano per noi, sono come una gita in una Spa. Io credo invece che per la nostra mente sia meglio allenarsi alla palestra della filosofia. È più faticoso, certo, ma rinforza i muscoli del cervello. I filosofi non ci insegnano a cercare il significato della vita, ma a vivere una vita piena di significato. Ecco cosa hanno da dirci».

Marco Aurelio ha lottato tutta la vita per frenare il suo naturale pessimismo. Cosa può insegnarci il grande stoico per affrontare le difficoltà?

Il messaggio di Marco – e di tutti gli stoici – è che pensiamo di avere il controllo sul mondo esterno, ma non sui nostri pensieri e sentimenti. Invece è il contrario. Non possiamo controllare ciò che accade fuori di noi – come per esempio le guerre o le pandemie – ma possiamo modulare le nostre reazioni a questi eventi: i nostri impulsi, i nostri desideri e le nostre avversioni. Tutto sta nel modo in cui gestiamo l’incertezza – o, per essere più precisi, nella nostra risposta all’incertezza, nella nostra tolleranza per l’incertezza. Gli stoici ci insegnano proprio questo: a lavorare sulle nostre emozioni per vivere meglio. In pratica: cambia ciò che puoi, ma non affliggerti per ciò che non dipende da te.

Troppo spesso mettiamo la nostra felicità nelle mani degli altri: un capo tirannico, un amico umorale, i nostri follower su Instagram. Immagina di affidare le cure del tuo corpo a uno sconosciuto che incontriamo per strada. Assurdo no? Eppure è ciò che facciamo ogni giorno con la nostra mente: cediamo la sovranità ad altri. Se impariamo a conoscerci, e ad amarci, diventiamo invincibili. Poniti obiettivi interiori, non esteriori: non devi vincere la partita, ma giocare nel migliore dei modi.

Epicuro è il filosofo più banalizzato di sempre. Viene costantemente definito il filosofo del piacere. Ci insegna davvero a goderci la vita, e come?

Sì. Considerava il piacere il bene più alto ma non era un edonista. Egli definiva il benessere in modo diverso da come lo concepisce la maggior parte di noi. Noi pensiamo al piacere come a una presenza, ciò che gli psicologi chiamano affetto positivo. Epicuro lo definiva invece come una mancanza, un’assenza. I greci chiamavano questo stato atarassia, letteralmente “assenza di disturbo”. È l’assenza di ansia piuttosto che la presenza di qualcosa che porta alla soddisfazione. Il piacere non è il contrario del dolore, ma la sua assenza. È difficile capirlo per noi perché viviamo nell’era del piacere. Ci sono così tante opzioni allettanti a portata di clic. Tutte esche fasulle.

Oltre un certo punto, secondo Epicuro, il piacere non può essere aumentato, proprio come un cielo luminoso non può diventare più luminoso, ma solo diverso. Quel nuovo paio di scarpe Jimmy Choo o quell’Apple Watch rappresentano un piacere differente, non aumentato. Eppure la nostra intera cultura consumistica si basa sul presupposto che i due concetti si sovrappongano. E questa equazione errata è causa di inutile infelicità. Epicuro ci consiglia di valutare i nostri piaceri nella loro totalità, in prospettiva. Alcuni potrebbero portare a un dolore futuro e quindi dovrebbero essere evitati. Il dolore del cancro ai polmoni supera il piacere del fumo. Allo stesso modo, alcuni sforzi portano a un piacere futuro e quindi dovrebbero essere sopportati, come l’allenamento in palestra, per esempio. L’amicizia, pensava Epicuro, è il più grande piacere della vita, anche se gli amici possono ferirti, ma questo dolore è superato di gran lunga dai piaceri che offre. In conclusione, dovremmo stare attenti al “troppo”: la terza crème brulée non è mai buona come la prima. Non abbiamo bisogno di più (più soldi, più successo, più amici) ma di abbastanza. Significa sviluppare gratitudine per quello che abbiamo e per quello che ci capita.

Oggi viviamo in un continuo multitasking. Mentre lavoriamo guardiamo whatsapp, rispondiamo a una e-mail, parliamo al telefono. Siamo perennemente distratti. Lei chiama Simone Weil la filosofa dell’attenzione. Che cosa intende dire?

L’attenzione è importante. Più di ogni altra cosa, dà forma alla nostra vita. Non si tratta necessariamente di ciò che stiamo facendo, ma di come. È la qualità della nostra attenzione, non il suo oggetto, che conta. Simone Weil ha detto che c’è un nome per l’attenzione più intensa e generosa: amore. L’attenzione è amore: sono la stessa cosa. Solo quando diamo a qualcuno la nostra attenzione, completamente e senza aspettative di ricompensa, siamo impegnati in questa “forma più rara e pura di generosità”.

Ecco perché quando ci viene negata da un genitore o da un amante, è quella che brucia di più: è un ritiro dell’amore. La nostra attenzione è tutto ciò che abbiamo da dare. Il resto – denaro, lodi, consigli – sono sostituti poveri. Anche il tempo lo è. Dare a qualcuno il proprio tempo ma non la propria attenzione è la frode più crudele di tutte. I bambini per esempio sanno riconoscere a un miglio di distanza le attenzioni fasulle. La vera attenzione non consiste solo nel notare l’altro, ma nel riconoscerlo, nell’ascoltarlo pienamente, nell’essere presente. L’attenzione, più di ogni altra cosa, modella la nostra vita.

Parliamo della vecchiaia: non è mai veramente interiorizzata. Invecchiare riguarda gli altri, mai noi stessi. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare l’invecchiamento. Cosa ci insegna Simone de Beauvoir?

Ci sono poche mappe e ancor meno modelli per una vecchiaia soddisfacente. Molti l’accolgono con rabbia e si comportano da giovani a tutti i costi. “io non sarò mai vecchio” si dicono allo specchio ogni mattina. Ma questa è una battaglia persa in partenza. Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare la vecchiaia. Secondo Simone de Beauvoir la vecchiaia è culturale, un verdetto sociale emesso dagli altri. Il segreto per una vecchiaia felice è la passione, (e non la passività). E deve essere rivolta verso l’esterno, verso il mondo: significa avere progetti, non passatempi.

Come dice lei stessa: “C’è solo una soluzione se vogliamo che la vecchiaia non sia un’assurda parodia della nostra vita precedente, ed è quella di continuare a perseguire fini che diano un senso alla nostra esistenza: la dedizione agli individui, ai gruppi o alle cause, il lavoro creativo, sociale, politico e intellettuale”. E così ha fatto. La Beauvoir è stata più attiva politicamente a settant’anni che a venti. Io credo che invecchiare bene significhi avvicinarsi alla libertà di fare ciò che ci piace senza preoccuparsi del giudizio altrui.

Ognuno di noi ha paura di morire. Montaigne ci spiega come si può superarla.

Dopo un incidente a cavallo, Montaigne si convinse di essere sul punto di morire. Non provò né dolore né paura. Chiuse gli occhi e provò piacere nel lasciarsi andare, come se scivolasse dolcemente nel sonno. Questa esperienza lo convinse che la morte non è il nemico, qualcosa che sta là fuori ma è parte di noi. Fuggendo dalla morte, non facciamo altro che scappare da noi stessi. Occorre invece familiarizzare con il concetto della nostra finitezza.

La morte non è qualcosa che padroneggiamo, come gli scacchi o la vinificazione. Non è un’abilità. È un orientamento, allineato con la natura. La morte non è il fallimento della vita, ma il suo esito naturale. Così come una foglia d’autunno non si preoccupa di come cadere dall’albero, noi non dobbiamo preoccuparci di come morire. Come diceva Montaigne, “la natura ti dirà cosa fare sul momento, in modo completo e adeguato. Farà il lavoro alla perfezione per te: non devi preoccuparti”. Non si può imparare a nascere, così come non si può studiare per morire. Non serve un’accettazione rassegnata, ma piena e generosa che ci permetta di vivere intensamente fino all’ultimo respiro.

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