Perché ora la grande riforma?

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Di Guido Bossa

La riapertura del cantiere delle riforme con gli incontri promossi all’inizio della settimana dalla presidente Giorgia Meloni non è di per sé sufficiente a garantire il successo dell’iniziativa. Le condizioni politiche e istituzionali indispensabili per conseguire un esito soddisfacente sono ancora tutte da verificare, e a dire il vero i precedenti non depongono a favore di un risultato positivo. Si è perso il conto del numero delle commissioni bicamerali fallite lungo il tragitto, il che consiglierebbe di escludere il ricorso a questo strumento; ma anche il percorso indicato dall’articolo 138 della Carta è irto di ostacoli. C’è il rischio che ancora una volta l’introduzione del tema delle riforme nel confronto politico serva a puntellare una maggioranza debole e incerta, in difficoltà con l’attuazione del programma di governo e quindi alla ricerca di un diversivo per confondere l’opinione pubblica. Se guardiamo al passato, poi, vediamo come anche alcune riforme, a suo tempo presentate come indispensabili se non epocali e approvate con la procedura parlamentare del 138, hanno totalmente o in buona parte fallito l’obiettivo. L’esempio più clamoroso è la profonda revisione del Titolo V della Costituzione (2001), che avrebbe dovuto regolamentare i rapporti Stato-Regioni riconoscendo una larga autonomia agli enti territoriali, e invece ha dato luogo ad un infinito contenzioso sulle materie di legislazione concorrente; ma anche l’introduzione del principio del “giusto processo” (articolo 111, anno 1999), non ha certamente contribuito a sciogliere i nodi del conflitto fra magistratura e politica né ad accrescere la fiducia dei cittadini nella giustizia. Il fatto è che in entrambi i casi si voleva dell’altro, o spegnere le ambizioni autonomiste della Lega o punire l’arroganza dei magistrati di “mani pulite”. E’ possibile che anche questa volta la maggioranza sia alla ricerca di un diversivo per distogliere l’attenzione dalle difficoltà che sta attraversando. Solo pochi giorni fa in Parlamento ha dovuto registrare una pesante battuta d’arresto sull’autorizzazione ad uno scostamento di bilancio (che vuol dire nuovo deficit) necessario per garantire modesti aumenti in busta paga ai lavoratori a più basso reddito: una misura di durata limitata che in futuro dovrà essere finanziata con risorse tutte da reperire. Sulle nomine dei massimi vertici di apparati di sicurezza (Guardia di Finanza, Polizia) il governo non solo non ha dato prova di compattezza, ma ha mostrato di ispirarsi a criteri tutt’altro che limpidi; e lo stesso è accaduto e sta accadendo per l’Inps, l’Inail, la Rai. Non solo: il confronto con le istituzioni europee sull’uso delle risorse messe a disposizione dell’Italia dal Piano di ripresa e resilienza, sulla riforma della governabilità economica e sulla ratifica del Meccanismo di stabilità sta assumendo il profilo di un contenzioso infinito. Tutte circostanze sgradevoli per una compagine governativa che ha fame di risultati e vorrebbe fare mostra di decisionismo. E’ dunque possibile che l’indicazione di un traguardo impegnativo come una riforma costituzionale che investa Presidenza della Repubblica, Governo e Parlamento serva anche a manipolare l’opinione pubblica e la politica per far dimenticare una routine quotidiana non esaltante.


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