La camorra, la scena e la vita della città

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Di Franco Festa

C’è una tenaglia oscura tra potere e camorra che di fatto domina la città. Non è una fantasia, ma un dato processuale, ha affermato il procuratore Airoma. Non basta però, per uscirne, il suo duro monito alla società civile inerte, complice o arresa, al quale tutti hanno finto di annuire, per continuare poi tutto come prima. Per spezzare questa cappa asfissiante occorre qualcosa di più: una nuova sinergia tra una reazione coraggiosa della società, che finora è mancata, e lo sforzo della magistratura di andare ancora più a fondo nel cogliere connivenze e legami tra affari e potere, tra politica e camorra. Oggi Avellino sembra vivere sulla luna, con il Sindaco che dichiara che questo è il migliore dei mondi possibili e tanti che in quel brodo maleodorante sguazzano felici. Molti fingono di non vedere, di non sentire, di non sapere, e farsi i fatti propri è la loro unica religione. Di questi miserabili principi è lastricato il Corso, la Piazza, ed è foderata la testa di tanti. E non è storia di oggi. Ma non bisogna perdersi di coraggio, perché Avellino non è tutta così. C’è anche chi non sbraita, non fa rumore, ma agisce in silenzio, ogni giorno. E’ il dipendente delle Poste, che nella calura insopportabile aiuta il vecchio pensionato a compilare un modulo incomprensibile senza innervosirsi, spiegando lentamente come procedere. E’ il commesso, che sistema con cura la merce in un supermercato e si scosta gentile per farti passare. E’ l’impiegato amministrativo, che aiuta il genitore che deve iscrivere il figlio a orientarsi, a non avere paura del nuovo. E’ l’avvocato nell’ombra del piazzale del tribunale, che ancora riguarda le te per una piccola causa di lavoro, importante per chi l’ha fatta. E’ il poliziotto di servizio per il controllo dei documenti di chi è arrivato da lontano, fuggito, immigrato, rifugiato, e guarda ognuno con lo stesso rispetto, la stessa attenzione umana. E’ l’operaio che manifesta davanti alla Prefettura, preoccupato per la crisi della sua azienda, per il suo futuro, e che spiega a chiunque lo chieda cosa ci sia in gioco, cosa si possa fare per ridare dignità a chi la sta perdendo. E’ il medico che in ospedale è da ore al suo posto, convinto, nonostante l’immane stanchezza, che ciò che faccia per gli altri ogni giorno abbia un senso vero. E’ la maestra che inventa nuovi giochi con i bambini nel giardino, il ragazzo che freme nella frescura della villa sulle pagine di amore di un libro, il giovane prete che è più attento alla sua parrocchia che ai corridoi del vescovado, la giornalista che non si ferma mai per offrire ai cittadini uno spaccato di verità, lo street artist che colora i muri delle periferie di fantasia e di bellezza, di ribellione e di utopia. La scena, certo, è degli altri, di quelli che non si stancano di parlare e vivono nel clamore, nell’ambiguità quotidiana con il crimine. Ma la scena non è la vita. La vita sono quelli che non figurano nelle cronache, quelli che sorridono, ringraziano, aprono le porte, rispondono, ascoltano, salutano, lavorano, tornano sereni o preoccupati alle loro case, hanno una naturale attenzione al prossimo e riempiono la città dell’umanità che la rende ancora riconoscibile. Certo sono una minoranza, certo contano poco. Ma ci si ricordi anche di loro, come possibili alleati, quando si parla di lotta alla contiguità mafiosa.


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