Nella grande popolazione dei globuli bianchi, i linfociti rappresentano circa il 20-40 per cento del totale e si possono riscontrare sia nel sangue periferico sia nel midollo osseo e nel sistema linfatico. Hanno dimensioni leggermente superiori rispetto ai globuli rossi ed è grazie al loro intervento che l’organismo può difendersi da virus, batteri e sostanze potenzialmente pericolose.
Cosa sono i linfociti
Apparentemente tutti identici, in realtà ogni linfocita presenta sulla superficie diverse molecole che permettono di classificarli in due grandi categorie, identificate dalle lettere B e T.
«I linfociti B sono quelli che producono gli anticorpi, fondamentali nella risposta immunitaria contro le infezioni», spiega la dottoressa Patrizia Pregno, ematologa del Centro Medico Diagnostico di Torino. «Nella pratica, si “attaccano” ai virus per neutralizzarli direttamente oppure per etichettarli, in modo che altri globuli bianchi li riconoscano e li distruggano».
Al termine dell’infezione, alcuni linfociti B tengono anche memoria dell’accaduto, per cui sono in grado di riattivare la risposta immunitaria in tempi brevissimi qualora lo stesso microrganismo tenti un nuovo assalto.
«I linfociti T, invece, inducono una risposta immunologica cellulo-mediata, cioè sono in grado di distinguere tra “self” e “non-self”, ovvero tra le strutture che compongono l’organismo e gli agenti esterni, in modo da alzare le difese solo contro le molecole riconosciute come estranee», illustra l’esperta. «Anche questi linfociti possono produrre molecole preziose, le citochine, anch’esse importanti per difenderci dalle infezioni e per supportare la risposta immunitaria verso i fattori che distruggono le cellule, modulandone l’intensità a seconda dei bisogni».
Perché i linfociti possono aumentare
Sono soprattutto le infezioni virali a determinare un rialzo dei linfociti: ogni laboratorio di analisi indica un intervallo di normalità nei referti, ma a grandi linee vanno considerati normali i valori compresi tra le 1500 e le 3500-4000 unità per ogni millimetro cubo di sangue periferico, mentre il valore percentuale è in genere compreso fra il 20 e il 40 per cento di tutti i globuli bianchi.
«I valori di normalità possono variare di poco da laboratorio a laboratorio e a questi occorre fare riferimento. Ma più che la percentuale va considerato il valore assoluto per millimetro cubo», precisa l’esperta.
Ci sono situazioni fisiologiche che prevedono un aumento di linfociti: accade, per esempio, nei bambini, per i quali la soglia può alzarsi fino a 9000 unità per millimetro cubo, oppure nelle persone più anziane, in alcuni stati di denutrizione o in menopausa.
«Un rialzo è possibile anche nei pazienti sottoposti a splenectomia: siccome nella milza può esserci un deposito di linfociti e di altri globuli bianchi pronti a intervenire in caso di necessità, qualora quest’organo venga asportato a seguito di un grave trauma o quando la sua funzionalità sia compromessa, queste cellule si trovano a circolare nel sangue, perché perdono il loro serbatoio naturale», descrive la dottoressa Pregno.
Al di là di queste condizioni, i linfociti possono aumentare temporaneamente in caso di malattie infettive acute (come pertosse, parotite, mononucleosi, influenza, varicella, epatite virale o infezione da citomegalovirus) oppure croniche (tubercolosi, brucellosi, herpes labiale o genitale, etc). «Ovviamente, una volta risolta l’infezione, i valori rientrano nella norma», precisa l’esperta.
Linfociti alti, quando preoccuparsi
Se invece la linfocitosi (cioè l’aumento dei linfociti nel sangue) è costante e persistente, per cui viene confermata da più emocromi condotti a distanza di circa 20-30 giorni l’uno dall’altro, bisogna sospettare una patologia cronica. «È il caso delle endocrinopatie, come ipertiroidismo e tiroidite di Hashimoto, oppure delle malattie reumatiche, come il lupus eritematoso sistemico», illustra la dottoressa Pregno.
«Altre volte, dietro una linfocitosi persistente può nascondersi una malattia primitiva ematologica del midollo osseo e dei linfonodi, come i linfomi non Hodgkin a basso grado di malignità, la leucemia linfatica cronica o la più rara leucemia linfoblastica acuta».
In genere, a guidare il medico verso un sospetto diagnostico è l’eventuale sintomatologia correlata: nelle malattie infettive ci sono spesso mal di gola, mal di testa, febbre, tosse o dolori articolari, mentre le forme croniche possono essere accompagnate da stanchezza costante, ingrossamento dei linfonodi oppure sensazione di peso o dolore a livello della milza.
Non sempre danno sintomi
«Va detto, però, che alcuni linfomi non Hodgkin a basso grado di malignità e la leucemia linfatica cronica possono essere del tutto asintomatici in fase iniziale di malattia», avverte l’ematologa. «Non a caso, soprattutto la leucemia linfatica cronica viene spesso diagnosticata in occasione di esami di routine, fatti in maniera sequenziale. A quel punto, la diagnosi va confermata con analisi di secondo livello, come l’immunofenotipo su sangue periferico, un test di laboratorio che consente di controllare alcune caratteristiche dei globuli bianchi circolanti nel sangue e di verificare se esiste una popolazione monoclonale linfocitaria, con cellule tutte uguali, come cloni».
La situazione può rimanere stabile per lungo tempo oppure, con l’aumento progressivo della linfocitosi e in fase avanzata di malattia, possono comparire splenomegalia (ingrossamento della milza), adenopatie superficiali (aumento del volume dei linfonodi), riduzione delle piastrine e anemia più o meno importante.
Come si tratta il problema
Il trattamento della linfocitosi dipende dalla malattia sottostante, che va curata oppure tenuta sotto controllo nel tempo.
«In alcuni linfomi a basso grado di malignità con linfocitosi lieve e nella leucemia linfatica cronica, molto più frequente negli anziani, si è osservato che nelle fasi iniziali è bene monitorare il paziente con esami e controlli clinici periodici, ma senza sottoporlo a terapie specifiche. È l’esatto opposto di quanto accade nella leucemia linfoblastica acuta, la forma di leucemia acuta più frequente nei bambini, che ha sintomi importanti e necessita di cure immediate», precisa la dottoressa Pregno. «Diversamente, si rischierebbe solo di esporre la persona agli effetti collaterali dei trattamenti, senza avere un beneficio in termini di risposta a lungo termine e di evoluzione della patologia».
Tra l’altro, da qualche anno, è stata scoperta una forma intermedia di malattia, la linfocitosi B monoclonale, una condizione clinica caratterizzata da una piccola popolazione monoclonale di linfociti B nel sangue periferico, che va semplicemente tenuta sotto controllo e non dà segno di sé, per cui è asintomatica. «A grandi linee, nell’emocromo questa linfocitosi è compresa fra 3500 e 5000 linfociti clonali per millimetro cubo, mentre nella leucemia linfatica cronica il valore supera le 5000 unità», conclude l’esperta.
Negli ultimi anni, infine, sono stati studiati nuovi farmaci intelligenti anche a bersaglio molecolare, che sono a disposizione dei medici e lo aiutano a scegliere il tipo di cura e il momento ottimale per iniziarla.
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