Il formaggio? Spazia dall’antipasto al dolce e soddisfa, per gusto e consistenze, anche i palati e le preparazioni più raffinate. Ne vantiamo tante varietà, grazie a una lunga tradizione e al retaggio di quella cultura contadina dove il cibo, seppur povero, era, anche per necessità, rispettoso del territorio.
In principio sono stati i Romani e non c’è da stupirsi: da cultori del buon vivere avevano l’acquedotto, lastricavano le strade, abitavano in ville e condomini e andavano alle terme. Non sorprende, quindi, che nella Roma imperiale questo gustoso alimento fosse considerato il principe della tavola, consumato durante i banchetti. Furono poi i monasteri, nel silenzio scandito dall’ora et labora, a perfezionare la lavorazione del latte creando, tra il XII e il XIII secolo, le varietà che gustiamo ancora oggi come il Grana Padano, il Montasio e la Mozzarella.
Sempre a partire dal 1200, nel parmense e nella bassa Lombardia, comincia a svilupparsi l’industria casearia che, man mano, andrà privilegiando il latte vaccino a quello di pecora, più utilizzato nell’antichità, e perfezionando quelle particolarità regionali che saranno il tesoro della produzione italiana. Tra cui rientrano a pieno titolo i formaggi a latte crudo, grazie alle loro caratteristiche sensoriali e di gusto che dipendono proprio dalla qualità e dalla lavorazione della materia prima. Come ci spiega il nostro esperto, il dottor Daniele Paci, agronomo, consulente RAI, promotore di iniziative a tutela delle produzioni locali e molto popolare sui social grazie ai suoi consigli di educazione alimentare e anti-spreco.
Perché i formaggi a latte crudo si chiamano così?
Lo spiega la definizione stessa, si tratta di formaggi prodotti con latte non pastorizzato (crudo), cioè non trattato termicamente. Mantengono perciò una loro specificità, data dal fatto che i microrganismi presenti rimangono attivi e la cagliata avviene naturalmente; è proprio la flora batterica che acidificando il latte consente la caseificazione e previene anche lo sviluppo di agenti patogeni. Questo significa che il prodotto finale sviluppa una particolare qualità organolettica che è caratteristica dell’ambiente in cui l’animale, mucca, capra o pecora, è stato allevato e si è nutrito, restituisce nella forma, nella consistenza, negli odori e nei sapori la biodiversità del pascolo, il metodo di allevamento, la razza.
Quali sono le differenze con gli altri formaggi?
In genere quelli a latte crudo sono prodotti da caseifici artigianali, anche se troviamo esempi illustri pure a livello industriale; annoverano alcune tra le qualità italiane D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta) più conosciute e apprezzate di cui fanno parte, per esempio, il Parmigiano Reggiano, la Fontina e il Castelmagno. A livello industriale, di norma, si predilige la lavorazione con il latte pastorizzato, perché l’obiettivo è ottenere un prodotto finale sempre omogeneo per forma e gusto, garantendo la qualità standard richiesta.
Il latte, per essere lavorato, viene portato a una temperatura intorno ai 70 °C, procedimento che abbatte tutta la flora batterica presente, batteri buoni compresi, così come lieviti e funghi. Microrganismi che non necessariamente sono nocivi per la nostra salute, ma che possono incidere negativamente sulla produzione del formaggio. Una volta pastorizzato, nel latte vengono poi inoculati fermenti selezionati a livello di laboratorio, affinché acidifichino e si produca la cagliata.
Ci sono potenziali rischi per la salute con i prodotti non pastorizzati?
La maggior parte dei formaggi a latte crudo, come stabilito dalle norme, deve stagionare per un minimo di 60 giorni: durante questo periodo di maturazione i microrganismi “buoni” prendono il sopravvento e sanificano naturalmente il prodotto. Quindi sì, è sicuro anche il formaggio che troviamo in vendita nel negozietto di paese rifornito da caseifici locali.
E dal punto di vista del processo produttivo?
Nell’immaginario collettivo, il prodotto artigianale rimanda al contadino che munge, raccoglie il latte nel mastello di legno e ricava il formaggio lì, nelle condizioni “ruspanti” della stalla. Non è ovviamente così: le aziende a conduzione artigianale devono attenersi a specifiche norme di igiene e sicurezza, regolamentate a livello europeo, e rispondono a determinati requisiti, che riguardano non solo le fasi della produzione ma anche materiali e ambienti.
In realtà, al contrario di quanto siamo portati a pensare, l’utilizzo di contenitori in legno è un plus per la sicurezza alimentare perché questo materiale viene colonizzato da batteri “buoni” che prendono piede rispetto a quelli potenzialmente nocivi e ha una capacità “naturale”, a differenza di acciaio o plastica che devono essere costantemente sterilizzati, di controllo batterico grazie ai tannini.
Quando si parla di varietà a latte crudo vengono in mente anche quelle “di malga”…
Definiti anche d’alpeggio, sono tra le nostre eccellenze, dove la differenza, è facile immaginarlo, sta nella qualità della materia prima. Si tratta di un prodotto che utilizza il latte di animali (bovini, ma anche pecore e capre) che, nel periodo estivo, vengono portati in alta quota, per farli vivere all’aperto e nutrirsi di erbe aromatiche ed essenze fresche. Ne viene un latte più nutriente per grassi e proteine ma soprattutto più gustoso e ricco di sfumature. Bisogna poi fare una ulteriore distinzione in casi particolari, come nel Castelmagno con dicitura “d’alpeggio” o “prodotto della montagna”.
Per quest’ultimo significa che il latte utilizzato proviene da allevamenti a oltre 600 m sul livello del mare; invece quello di d’alpeggio (di malga) è prodotto in un periodo limitato, da maggio a fine ottobre, da animali che hanno pascolato in zone alpine, in alta quota, almeno sopra i 1000 m s.l.m. e di solito ben oltre i 1500-1600 m s.l.m., quindi si sono foraggiati in pascoli con una biodiversità differente. È un latte arricchito dai microrganismi caratteristici della zona di produzione, sviluppati dal nutrimento e dall’ambiente in cui vive l’animale e che ne determinano le pregiate qualità organolettiche. Tra i formaggi d’alpeggio, ci sono il Castelmagno DOP, la Toma, e il Vezzena del Trentino, per citare alcuni tra i più noti.
Ci sono anche quelli freschi: leggi bene l’etichetta
Sono i formaggi non stagionati, cioè non sottoposti a maturazione per 60 giorni. «Vengono prodotti utilizzando latte crudo con una conta batterica molto bassa e stabilita per legge, cioè una quantità di batteri al di sotto delle 100 mila unità al ml per quello vaccino e di 1.500 mila u/ml per quello di pecora, capra e asina. Sono i requisiti del pacchetto igiene, sancito dall’Unione Europea per la produzione dei formaggi. Inoltre devono riportare la dicitura “da latte crudo” in etichetta, a tutela del consumatore: è obbligatorio, per legge, quando il formaggio ha una stagionatura inferiore ai 60 giorni», ribadisce Daniele Paci, il nostro esperto.
Dovrebbero essere sconsigliati alle donne in gravidanza o in allattamento, ai bambini molto piccoli e anche agli anziani perché potrebbero creare problemi al sistema immunitario o intestinali.
Eccellenze italiane: le specialità D.O.P. a latte crudo
• Castelmagno. Tipico del Cuneese, di latte di mucca, è prodotto a 1600 m s.l.m. Può essere aggiunto un 20% max di quello ovino o caprino. Di pasta semi dura, matura per almeno 60 giorni su assi di legno, in grotte naturali.
• Parmigiano Reggiano. Di latte vaccino parzialmente scremato, dalla pasta dura e dal sapore ricco e complesso. Ha una stagionatura di almeno 12 mesi. Per ogni forma di Parmigiano Reggiano occorrono circa 550 litri di latte.
• Grana Padano. Di latte vaccino, a pasta dura, cotta e a lenta maturazione. Viene stagionato almeno 9 mesi e ha un elevato potere saziante. Ha un aroma fragrante ed un sapore caratteristico e persistente.
• Fiore sardo. Prodotto in Sardegna con latte ovino intero di pecore sarde allevate al pascolo. Dalla pasta dura e dal sapore più o meno piccante, a seconda del grado di maturazione; presenta sentori di frutta secca e aromi di piante officinali.
• Formaggella del Luinese. Originaria dell’area alpina lombarda, a Nord della provincia di Varese, è un formaggio grasso di latte di capra. A pasta semidura, è caratterizzato da una breve stagionatura. Ha un sapore fresco e leggermente acidulo.
• Fontina. A pasta semidura, è prodotta in Val d’Aosta con latte intero di mucca. Ha un sapore dolce e leggermente erbaceo. Viene fatta invecchiare in magazzini con almeno il 90% di umidità, tra i 5 e i 12 °C, per almeno 80 giorni.
• Puzzone di Moena. Di latte vaccino, a pasta semidura, viene prodotto in Val di Fassa e Val di Fiemme (Trento). Il suo odore intenso è dovuto alla crosta che, durante la stagionatura, viene tenuta bagnata. Ha un sapore dolce con retrogusto amarognolo.
• Strachitunt. Dal sapore erborinato, di latte vaccino intero, appartiene alla famiglia degli stracchini ed è tipico della Val Taleggio. Ha una stagionatura di almeno 75 giorni e può presentare venature verdibluastre prodotte da muffe naturali.
• Caciocavallo silano. Prodotto esclusivamente con latte vaccino proveniente da Basilicata, Campania, Calabria, Molise e Puglia. A pasta filata e dal sapore ricco e avvolgente. Contiene pochissimo lattosio, il che lo rende adatto anche agli intolleranti.
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