Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Questo antico detto popolare, citato persino nel Vangelo di Luca, è di grandissima attualità in medicina. Lo dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che quest’anno, per il World Hearing Day, ha lanciato un messaggio eloquente: “Cambiare mentalità: rendiamo la cura dell’orecchio e dell’udito una realtà per tutti”. Il messaggio è chiaro.
La nostra società, infatti, ancora sottovaluta la perdita uditiva come problema di salute e la gestisce in maniera errata, troppo spesso stigmatizzandola come se fosse un “difetto” della persona, della serie “ma sei sordo?”. Una situazione che, se non contrastata, farà crescere i 7 milioni di italiani che oggi soffrono di ipoacusia e che, udite udite, vede il maggior incremento dai 46 ai 60 anni, senza contare quella che gli esperti chiamano la “pandemia silenziosa” fra i giovani.
Altro che “problema da vecchi”, insomma. «Lo stigma esiste, viene da lontano e rema contro la prevenzione e la cura: basta pensare che persino nell’arte il cieco veniva rappresentato come il saggio meditativo e il sordo come una persona ai margini della collettività e con problemi cognitivi, quindi non solo di udito», commenta la dottoressa Lucia Oriella Piccioni, otorinolaringoiatra e otologa presso l’Ospedale San Raffaele di Milano.
Gli occhiali del suono
Quando iniziamo a sentire peggio, una delle cose che più fanno scappare dall’idea di una visita specialistica è lo spauracchio che l’otorino ci proponga l’apparecchio acustico. Quindi, preghiamo che il problema sia dovuto al solito tappo di cerume, anzi, cerchiamo di eliminarlo da soli con vari artifizi fai da te o, più spesso, non facciamo nulla: aspettiamo, è il caso di dirlo, sempre più in silenzio.
«Per questo le maggiori società scientifiche hanno definito la situazione come “pandemia silenziosa”, rendendo ufficiale il fatto che tutti vogliono nascondere la sordità, invece di prevenirla e curarla», commenta la dottoressa Piccioni.
«C’è anche molta ignoranza fra gli addetti ai lavori: gli otorini sono in genere poco otologi, cioè specialisti dell’orecchio, e molti, di fronte a un problema di perdita dell’udito, non propongono la protesi acustica a tempo debito, rinunciando a vincere la riluttanza delle persone. Invece tutto dovrebbe funzionare come quando si va dall’oculista: se ci vedi meno ti prescrivo le lenti, ecco perché è importante fare informazione anche ai medici. La protesi, perciò, va messa quando c’è un disagio sensoriale e sociale, non quando vuole il paziente, che di solito è renitente e spesso nasconde addirittura il suo deficit. Ma l’esame audiometrico non mente: se non senti, non ci senti», osserva la dottoressa.
Il paradosso consiste nel fatto che noi portiamo gli occhiali anche come oggetto di moda, spendendo parecchi euro per la montatura griffata moltiplicata per modelli da sole, da vista, da lontano e da vicino, mentre rinunciamo, per il prezzo elevato, all’acquisto di un apparecchio che ci ridona subito l’udito e dura almeno per dieci anni. «Le protesi oggi non sono invisibili, certo, ma di piccole dimensioni», spiega l’esperta.
«Le ultime si notano poco o niente, hanno colorazioni che le mimetizzano e migliorano di molto la qualità di vita. Esistono anche quelle interne, che richiedono l’intervento del tecnico e una manutenzione annuale, ma sono più costose e destinate a certi tipi di sordità. Il SSN, invece, prevede un contributo per acquistare le cosiddette protesi sociali (che non vanno bene in tutti i casi), ma solo se si ha un’invalidità legata a una malattia che porta alla sordità, o questa condizione è di per se stessa grave: parliamo di un deficit bilaterale (la sordità monolaterale non è coperta) superiore a 55 decibel, dove l’ipoacusia moderata varia da 41 a 55 ed è quella, per intenderci, che provoca difficoltà uditive a sentire le parole se c’è rumore di fondo».
Calo dell’udito, altro che vecchiaia
Un’altra delle scuse che accampiamo per evitare l’apparecchio e persino la visita di controllo consiste nell’idea, molto diffusa, che un calo dell’udito è normale col passare dell’età. «Dipende dall’entità del problema: se un invecchiamento delle cellule acustiche è fisiologico e soggettivo, è sbagliato arrendersi alla vecchiaia», spiega Piccioni.
«E poi oggi anche molti giovani iniziano a non sentirci bene, quindi non è più un problema solo di età. Uno studio americano, che ha preso in considerazione una grande fascia di popolazione fra il 1988 e il 1994, già dimostrava allora che il 15% dei ragazzi fra i 6 e i 19 anni soffriva di una perdita uditiva dovuta al rumore eccessivo. Sempre l’OMS stima un milione di giovani a rischio di sviluppare ipoacusia per l’esposizione a forti suoni. Quindi, già attorno ai 20 anni possono comparire i primi problemi. La musica gestita male a questa età può portare a sordità da adulti, fino a diventare un problema anche sociale. Occorre, dunque, fare prevenzione: è fondamentale agire al più presto perché se si arriva alla protesi ormai il danno è fatto, e non sempre si può tornare indietro. Anche perché non esistono a oggi farmaci che curano l’ipoacusia. La ricerca sta lavorando sulle staminali e molecole mirate per migliorare lo stato delle cellule della coclea, ma siamo ancora lontani da risultati concreti».
Bisogna stimolare il cervello
Fondamentale poi, nella lotta alla sordità, allenare la corteccia cerebrale. «Dobbiamo stimolare le connessioni neurali delle aree uditive presenti nel cervello, mantenendo così al meglio la nostra memoria uditiva, quella che identifica e ricorda i suoni», spiega l’esperta.
«Chi ci sente poco, infatti, non ha solo un problema attuale di udito, ma ha un peggioramento precoce dello stato cognitivo, che compromette sempre di più le aree della percezione, dell’attenzione, del linguaggio e della memoria in generale. La persona con un deficit trascurato tende a isolarsi, non socializza, rischia di deprimersi, i suoni non sono più riconoscibili ma diventano un fastidio. Vengono anche a mancare quelle che sono le emozioni che ci danno questi ultimi, importanti per il cervello e per l’umore. Chi ha questi problemi tende poi a privilegiare le aree cerebrali visive rispetto a quelle uditive, spegnendole sempre di più. Si perde così la memoria dei suoni, ma anche quella che serve a ricordare. Dunque l’apparecchio acustico, se prescritto per tempo, serve anche ad allenare il cervello a sentire e a ridargli le informazioni sonore così preziose per le sue connessioni. Associato a una riabilitazione tagliata su misura del paziente, come minimo stabilizza la progressione del deficit uditivo e gli effetti benefici, come già sottolineato, vanno ben oltre».
Quando ricorrere all’impianto cocleare
Ci sono casi, però, nei quali non è possibile utilizzare una protesi acustica, per esempio perché il calo d’udito è stato trascurato troppo a lungo o la sordità è dovuta a una malattia (come le infezioni tipo la meningite, molto aggressiva con l’orecchio), l’uso di antibiotici ototossici o l’otosclerosi, cioè una crescita anomala delle ossa interne. Oppure vi sono cause genetiche ed ereditarie. Allora si può optare per l’impianto cocleare, un dispositivo artificiale elettronico conosciuto anche come orecchio bionico, in grado di risolvere le sordità profonde.
«È una neuroprotesi, costituita da un apparecchietto elettronico con una parte esterna rappresentata da un microfono e un processore del suono, e una interna fatta di elettrodi collegati chirurgicamente alla coclea», spiega Piccioni. «Il suono esterno viene trasformato in segnale elettrico; questo viene tradotto dal processore in impulso nervoso, che stimola le cellule acustiche deputate a percepire ogni tipo di frequenza. Si tratta di un intervento che, ormai, si fa di routine e non è un’operazione complicata, se il chirurgo è esperto».
I risultati? «Si sentono le parole ma anche la musica. Esistono addirittura degli spettacoli condotti da musicisti che indossano l’impianto, e che riescono a suonare e a sentire la musica. Un po’ come il grande Beethoven che, quando ha scritto la Nona sinfonia, era sordo ma riusciva a percepire e tradurre genialmente le vibrazioni in suoni (mentre in questi casi il mezzo di trasmissione è l’elettricità a impulsi). Dopo l’intervento occorre sottoporsi a sedute di logopedia, anche per mappare perfettamente le frequenze e tarare al meglio il dispositivo. Più ci si allena e più si avrà una percezione naturale dei suoni: l’impianto funziona talmente bene che oggi è possibile eseguire l’intervento, sempre in regime di SSN, anche in pazienti con sordità monolaterale. In quest’ultimo caso, si tratta di un intervento più che giustificato perché chi ci sente solo da un orecchio non riesce a distinguere la provenienza dei suoni e a capire cosa dicono più persone che parlano».
Le regole di prevenzione
- Per evitare i problemi uditivi occorre cambiare i propri stili di vita al più presto possibile. Ecco i consigli della nostra esperta.
- 1. Per sentire la musica meglio le cuffie degli auricolari (sono più distanziate, l’auricolare è proprio a ridosso del timpano), magari optando per quelle in grado di ridurre i rumori ambientali che si sommano all’intensità dei brani ascoltati.
- 2. Segui la regola del 60-60: quando ascolti musica o tv, utilizza al massimo il 60% del volume erogabile e per non più di 60 minuti consecutivi.
- 3. Se vai a un concerto, il giorno dopo fai una pausa sonora di almeno 12-16 ore.
- 4. Ai concerti usa i tappi speciali in grado di ridurre l’intensità del suono senza alterarne la qualità.
- 5. Occhio agli eccessivi stress emotivi: possono far apparire gli acufeni, ronzii causati dalla pressione alta indotta dall’adrenalina, con conseguente vasocostrizione e sofferenza cellulare.
- 6. Smetti di fumare: il rischio di avere un deficit uditivo arriva al 70%. E più accendi sigarette più sale.
- 7. Mangia più frutta, verdura e pesce, alimenti ricchi di sostanze antiossidanti e vitamine A, C e zinco, che riducono il rischio di infezioni nemiche dell’udito.
- 8. Occhio alle otiti, soprattutto da adulti e quelle ripetute nei bambini: vanno curate bene in modo che non perforino la membrana timpanica.
- 9. Modera l’alcol.
Fai la tua domanda ai nostri esperti