Riscontri, dal Grand Tour di Twain in Italia al meridionalismo di Muscetta – Corriere dell’Irpinia

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Si conferma strumento prezioso per comprendere le contraddizioni del nostro tempo il nuovo numero della rivista Riscontri, diretta da Ettore Barra, edizioni Il Terebinto. Una riflessione che sceglie di partire dall’etichetta di antifascista che appare oggi necessaria per legittimare qualsiasi partecipazione allo scenario politico attuale “Chiunque – scrive Ettore Barra nell’editoriale – si affacci sul dibattito pubblico dovrebbe, infatti,  essere consapevole della necessità di munirsi della patente di “antifascismo”, regolarmente rilasciata, previo esame, dai giornali.  Ci sarebbe, però, da chiedersi quale sia l’utilità di una simile certificazione che non consegna altro che un’identità negativa.  Tutti siamo chiamati a dichiarare ciò che non siamo, ma a nessuno  importa invece in cosa crediamo. Una volta escluso il fascismo  dall’orizzonte politico di una persona, cosa sappiamo effettivamente su di lei? Possiamo presumere, solo per questo, che creda nella democrazia liberale?”. Barra non risparmia stilettate a una sinistra colpevole di aver fatto del fascismo una parola vuota, utile solo a distogliere l’attenzione dai reali totalitarismi in agguato, mettendo in guardia dai “professionisti dell’antifascismo”, per usare l’espressione coniata da Sciascia.

Barra punta l’indice contro il radicalismo di una certa sinistra e ricorda come “ancora più dopo il crollo del blocco sovietico,  fino ai giorni nostri, intellettuali, politici e giornalisti hanno iniziato a definire come fascista ogni forma di dissenso. Sono stati considerati fascisti, e lo sono tuttora, persone come Indro Montanelli e Oriana Fallaci, che al regime fascista si opposero a rischio della vita”

Raffaele Di Zenzo si sofferma, invece, sul Grand Tour che porterà Mark Twain (1835-1910), il più grande scrittore americano, in Italia. Era il 1867 quando, come corrispondente per un giornale di San Francisco e New York, visitò Genova, Milano, Venezia, Firenze, Pisa, Roma, Napoli e Pompei. Non soltanto descrisse le bellezze naturali e artistiche ma scrutò il cuore d’Italia a partire da vizi e virtù degli italiani. Uno sguardo da cui nascerà il volume “The Innocents  Abroad (Gli innocenti all’estero)”. Un viaggio, quello di Mark Twain, che parte da Genova per visitare la casa-museo di Cristoforo Colombo (1451-1506), e attestare che Colombo fosse nato a Genova, come egli stesso aveva scritto in una lettera: «dalla città di Genova io trassi origine, e in essa io nacqui».

Mark Twain glorifica la storia e l’urbanistica di Genova: “Questa gente qui vive nelle case più fortificate, più alte, più larghe, più buie, più solide che si possano immaginare…”. Un itinerario che approda a Milano  alla scoperta del Duomo e della Biblioteca Ambrosiana, dove ammira un manoscritto del poeta Virgilio, con annotazioni di Petrarca; al teatro La Scala, prova l’acustica intonando, con la sua voce da tenore, alcune note del Va’ pensiero di Verdi. Ma il visitatore rimane incantato dalla solennità e maestà del Duomo:  “Che meraviglia! Così grandioso, così solenne, così vasto! Eppure così delicato, così aereo, così aggraziato… un miracolo!… un inno cantato nella pietra, una poesia scolpita nel marmo! È nobile, è bello! Ovunque ti trovi a Milano, o entro sette miglia da Milano, è visibile, e quando è visibile, nessun altro oggetto può catturare tutta la tua attenzione…”.

A colpirlo le pessime condizioni de “L’ultima cena di Leonardo”, custodita nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie “La trova in brutte condizioni e spiega il perché: i soldati di Napoleone avevano usato il refettorio come stalla per i cavalli e, amareggiato, esclama: «Deplorable sacrilege!». Mark Twain celebra la storia della Serenissima regina del mare Adriatico e rende omaggio a Firenze, dalla chiesa di Santa Maria del Fiore agli Uffizi  e Palazzo Pitti. Si inchina ai Medici, auspicando che altri facciano quello che hanno fatto per Firenze. A Roma ha l’impressione di toccare con mano la storia della Città Eterna. “Nel Foro Romano – scrive Di Zenzo – egli immagina essere in compagnia di Virgilio, di Cesare, di Cincinnato, dei fratelli Gracchi, di Augusto. Vede gli archi di trionfo di Costantino, di Tito, di Settimio Severo”. A Napoli visita il Gesù Nuovo, Santa Chiara, il centro storico, non nasconde la propria emozione di fronte alla bellezza del Cristo velato ma si sofferma anche sulle scene che osserva lungo le strade cittadine “Mark Twain, da osservatore perspicace del mondo intorno a sé, nota una cosa particolare per le vie della Neapolis. Ci sono più principi che poliziotti. Principi che non hanno principati ma hanno una carrozza pronta, anche a costo di andare digiuni. Nel pomeriggio, principi, duchi, banchieri, baroni… in una lunga processione, vanno alla riviera di Chiaia, indifferenti e non curanti della povertà intorno a loro. Dopo tre ore ritornano a casa, felici e pieni di gloria”. Raggiunge il Vesuvio e ancora una volta è conquistato dalle suggestioni del panorama “Vedere Napoli come l’abbiamo vista all’alba, dall’alto del fianco del Vesuvio, è vedere un quadro di meravigliosa bellezza… E quando i suoi gigli si trasformavano in rose – quando arrossiva sotto il primo bacio del sole – era bello oltre ogni descrizione. Allora, si potrebbe dire «Vedi Napoli e muori».” Fino alla visita alla città sepolta di Pompei in cui gli sembra di rivivere l’eruzione del Vesuvio, così come descritta da Plinio.

Si sofferma sul rapporto con l’altro come questione centrale in ogni esperienza umana Federica Monteleone che passa in rassegna l’immagine dello straniero in alcuni scritti letterari. Un’esplorazione che parte dall’analisi dei versi del poeta greco Konstantinos Kavafis Aspettando i barbari. Le massime autorità attendono, nella piazza principale di una capitale senza nome, l’arrivo delle truppe barbariche. Sono pronte a consegnarsi agli invasori ma i barbari non arriveranno, l’attesa sarà vana- “La principale chiave di interpretazione della lirica – scrive Monteleone – richiama la decadenza e il crollo finale dell’antico Impero romano, quando una civiltà da tempo indebolita da un insieme di fattori economici, politici e sociali, crollava sotto l’azione di popoli e culture diverse. Ma i versi sono anche una metafora della condizione del poeta di Alessandria d’Egitto, del suo animo incline a sperare in soluzioni esterne al suo tormento ed alla sua interiore incapacità di agire, piuttosto che in una consapevole assunzione di responsabilità e in un’azione decisa e risolutiva. I barbari sono un’invenzione con cui si immagina di dare senso alla vita consumata nell’attesa di un evento risolutore. In tal senso la costruzione dell’immagine dell’Altro non è funzionale soltanto a definire di volta in volta l’eventuale nemico, ma anche a costruire una gerarchia morale e storica, alimentata da una concezione positivistica della storia intesa come una evoluzione di tipo lineare e progressista, in cui l’Europa e l’Occidente rappresentano e producono la modernità, mentre l’Altro si definisce in relazione alla periferia, che è corpo esterno al sistema valoriale del centro”. Una concezione che cambia con l’azione pastorale e sociale dei Padri della Chiesa e l’affermarsi degli ideali di fraternità, di giustizia e di pace più volte ricordati da papa Francesco. Fino al modello pedagogico di Giovanni Crisostomo in cui si afferma il concetto di pietas, inteso come parte essenziale di un umanesimo integrale. La “paideia” si traduce così nel gesto concreto dell’ospitalità e dell’accoglienza dello straniero. Un modello per passare dalla “xenophobía”, dalla paura dello straniero, alla “philoxenía”, all’amore per lo straniero e ricostruire un’etica pedagogica capace di tradursi in responsabilità sociale.

Leonardo Lastilla esplora, invece, il fantastico nei romanzi di Anna Maria Ortese e Elsa Morante “L’iguana” e “L’isola di Arturo” a partire da una tendenza poco diffusa nella letteratura italiana, legata al superamento del realismo. Così Procida, l’isola amata da Arturo, diventa spazio della libertà contraddistinto da una dimensione magica e la stessa trama si snoda come in una fiaba “Arturo, il brutto anatroccolo, è affascinato dalla bellezza della principessa Nunziatina, il cui bacio provoca il sortilegio”. Eppure proprio Nunziatina diventa simbolo dell’alterità con cui Arturo, che sembra vivere solo in una dimensione fantastica che non ha nulla a che vedere con il reale, deve imparare a confrontarsi per accedere al mondo degli adulti. Uno scontro tra natura e cultura che si ritrova anche ne “L’iguana” di Ortese. Di grande interesse anche il saggio dedicato da Domenico Di Nuovo a Carlo Muscetta “Pare doveroso sottolineare quanto la sua eclettica attività all’insegna dello “storicismo integrale” abbia promosso gli interessi del Meridione in maniera pressoché costante e multiforme. Una passione di cui sono ancora valida testimonianza gli approfonditi studi su Francesco De Sanctis e il calabrese Vincenzo Padula, la direzione della monumentale Letteratura italiana: storia e testi, collana laterziana che si sofferma su tanti altri scrittori meridionali; e infine la partecipazione a taluni altri eventi (accanto a quello dorsiano) come l’incontro promosso ad Acri, in provincia di Cosenza, il 21 dicembre 1987 per predisporre un coordinamento tra i maggiori centri politico-culturali dediti allo sviluppo del Mezzogiorno”.

Preziosa anche la recensione che Francesco D’Episcopo dedica ad un volume di Annamaria Ortese, curato da Apollonia Striano “Quanta letteratura in questa lettera, non è vero?». Lettere  a Michele Cammarosano e a Maria Vittoria Ciambellini” Ad emergere “le sue contraddizioni, la sua natura ondivaga di costanti mutamenti di umore, il suo bisogno, proprio di anima nomade, di un altrove rispetto al momentaneo luogo di residenza nelle numerose città che l’hanno ospitata. Ma è soprattutto nella riflessione sulla letteratura, presente nelle lettere, che la Ortese dimostra le maggiori fluttuazioni nel suo interrogarsi sulla funzione e sulla validità della scrittura, tra la “gioia” e lo “stupore” che accompagnano il racconto, la voglia di raccontarsi e l’assertiva affermazione “io non amo scrivere”. A completare il numero i contributi di Donato Sperduto, Tina D’Aniello, Riccardo Renzi, Nicola Prebenna, Carlo Di Lieto, Dario Rivarossa.

 



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