Perché l’individualismo è un nemico silenzioso

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Troppo individualisti per vivere bene. Con noi stessi, con gli altri. Per pensare (e costruire con il piccolo ma essenziale contributo di tutti) a un contesto sociale multiforme, in cui, più o meno, prende vita il concetto di relazioni umane, prossime come lontane, che siano un punto di incontro tra le esigenze personali e quelle esterne. Purtroppo, non ci rendiamo conto di quanto l’individualismo, quel monito costante “io sono sopra tutti”, attraversi le nostre esistenze, con tutte le ricadute del caso.

Non poche, e neanche trascurabili, ci avverte Domenico Barrilà, psicoterapeuta, autore del libro Individualisti si cresce (Feltrinelli), che delinea un antidoto a questa facile tentazione che minaccia la nostra psiche, la nostra socialità e quella dei nostri figli. Starbene lo ha intervistato per capire come combattere questo pericolo.

Dottor Barrilà, come definisce l’individualismo?

L’individualismo è l’amico più intimo della volontà di potenza, che vorrebbe trasformare la vita degli uomini in una missione per la salvezza del pronome personale “io”. Si concretizza, nelle parole e nelle azioni, con l’incapacità di “sentire” l’altro, di mettersi in un rapporto di compartecipazione col prossimo. Sembra un piccolo neo, in realtà si tratta di una grave mutilazione del nostro mondo interiore, capace di ammalare noi stessi e di rovinare le nostre relazioni.

Quali sono le conseguenze?

Una persona che non è capace di tenere conto di ciò che cade fuori dal proprio stretto interesse, finisce per rendere l’esistenza un contenitore di solitudine, sofferenza, disagio, malattia. Un individualista è come un falegname senza colla. Questo è il motivo per il quale non potrà mai costruire legami e, quando ci proverà, andrà incontro a dei crack, su tutta la linea. Il personalismo, infatti, non è solo uno stigma che ci rende antipatici o insopportabili, a seconda del suo dosaggio, ma è la causa della maggior parte dei rovesci che subiamo e infliggiamo nella vita quotidiana, dove è presente in quantità importanti. Tutti i sentimenti che dividono, dall’invidia all’odio e alla gelosia, provengono dai laboratori sotterranei dell’individualismo.

Ha definito l’individualismo “l’insidia culturale più insidiosa del nostro tempo”, perché?

Innanzitutto, per la vastità del fenomeno. Si tratta di comportamenti molto estesi ed estremamente contagiosi, oltre che pericolosi. In secondo luogo, perché l’individualismo è mimetico, un vero mago dei travestimenti, ma il guaio più grande è che nessuno ammetterebbe mai di esserne posseduto. Quando non si percepisce un fenomeno e non se ne coglie la sua presenza dentro di noi, la situazione può solo peggiorare, e lo sta facendo, sfruttando anche l’effetto amplificatore e spersonalizzante dei social. Trovare una persona che riconosca di essere affetta da questo morbo o che il suo bambino ne è toccato, è come cercare vita su Giove.

Quindi, pensiamo di esserne immuni e invece ne siamo contagiati, senza accorgercene…

L’individualismo è un nemico silenzioso, deforma la nostra vita rendendoci veicoli di infezioni verso i nostri simili, a cominciare da quelli più vicini, i nostri figli, ai quali complichiamo la vita senza che ci sfiori il dubbio di averlo fatto. Quando pensiamo che il modo più efficace per proteggere un figlio sia salvaguardare lui e soprattutto lui, in realtà utilizziamo l’individualismo nell’azione educativa. Ma questo significa rendere i ragazzi inadatti non solo alle relazioni umane ma anche alla vita stessa, per giunta.

Perciò, si diventa individualisti?

Sì, grazie soprattutto al contributo dell’ambiente familiare, e poi al contagio sociale. Le linee di indirizzo della personalità si strutturano nei primi sei, sette anni di vita, un tempo che il bambino trascorre quasi interamente all’interno del perimetro familiare. Difficile che possa rimanere immune da contagi.

La vera cattedra dell’individualismo, infatti, è la quotidianità, sono i piccoli gesti che i bambini vedono compiere dagli adulti, poiché educare, oltre a essere un’azione incessante, è soprattutto una trasmissione “testimoniale”, che si alimenta di ciò che noi facciamo, più raramente di ciò che diciamo. Perciò, se si respira un clima individualista si crescerà con questa convinzione. Anche perché un bambino, di sicuro, non può permettersi di staccarsi dallo scoglio familiare che gli promette protezione e certezze!

L’individualismo, una volta entrato in noi, corrisponde a pensieri e modi di agire costanti?

Ciascuno di noi si muove seguendo delle linee precise, che si strutturano molto presto e poi tendono a persistere con una forte coerenza. Il risultato finale si chiama “stile di vita”, una sorta di impronta digitale che ci rende riconoscibili e impregna di sé tutto ciò che facciamo. Se quando siamo piccoli l’individualismo si afferma come mezzo per muoversi nel mondo, la probabilità che diventi un ispiratore permanente di concetti e gesti anche negli anni a venire aumenta considerevolmente e dall’individualismo germinano effetti rovinosi, penso al razzismo, all’omofobia, alla violenza.

Afferma che l’individualismo ricorrente mina le basi del sentimento sociale, in una spirale degenerativa?

Noi siamo figli di una specie che si è evoluta soltanto a partire dalla scoperta dei vantaggi che offre la cooperazione. Se perdessimo questo tratto, ci estingueremmo nel volgere di poche generazioni. Lo stesso Alfred Adler, grande medico e psicologo viennese, nato 150 anni fa, riteneva, dimostrandolo, che il sentimento sociale, ossia la capacità di provare genuino interesse verso il prossimo, è un vero è proprio “barometro della normalità”. L’attività clinica lo mostra tutti i giorni, le persone più infelici e meno adattate sono quelle individualiste, perché i loro perenni calcoli utilitaristici le rendono invise a chi gli sta intorno. Se giochi contro gli altri, perdi, anzi ti ammali. Anche se non te ne accorgi, aggiungo.

È per colpa dell’individualismo che tanti giovani hanno disagi mentali?

Di sicuro per un giovane accentratore è problematico annidarsi nel mondo in cui vive, per almeno due motivi. Tutti e due logici, conseguenti. Il primo riguarda le competenze sociali di una persona individualista, che sono piuttosto scarse. Stare in mezzo ai propri simili è come partecipare a una sorta di gioco le cui regole sono collaborative, ne consegue che i soggetti più adatti sono coloro che possiedono maggiori attitudini all’interazione col prossimo.

Faccio un esempio banale, in un posto dove si parla solo l’inglese sono facilitati coloro che conoscono quella lingua. Il secondo motivo è ancora più semplice da capire. In un sistema in cui prevale lo spirito di reciprocità, i giocatori tenderanno a respingere chi adotta comportamenti individualistici, e sarà questo a creare le condizioni per il disagio mentale. Non sentirsi accolti crea sofferenza psicologica. Quando ci sentiamo rifiutati percepiamo un giudizio di valore negativo verso noi stessi da parte del mondo.

Come salviamo i ragazzi dall’individualismo?

L’educazione è l’unico antidoto all’individualismo a patto che si rinunci all’illusione che basti parlare bene ai bambini e ai ragazzi per educarli, perché da una generazione all’altra passano solo i comportamenti. Se un bambino deve scegliere a cosa credere tra le parole di un genitore e il modo in cui egli agisce concretamente, non viene neppure sfiorato dai dubbi, crede a ciò che vede. È la maniera in cui si comporta a definire un genitore, un insegnante agli occhi di un bambino e, poi, di un ragazzo.

Infine, che fare?

È importantissimo insegnare al proprio figlio la differenza incolmabile che passa tra sentire o non sentire chi ci cammina accanto, tra capire o non capire dove sta andando, tra ascoltarne o non ascoltarne le ragioni, quando sono fondate. Sono queste le abilità necessarie per modellare la personalità dei bambini e dei ragazzini secondo i principi del sentimento sociale. L’unico compatibile con una prospettiva di sopravvivenza ed evoluzione collettiva, e anche di benessere personale, perché un essere inclusivo e compassionevole sta meglio al mondo.

Perché il modo in cui si rapporteranno con il prossimo parla di loro, ne svela la visione dell’esistenza, li colloca nello spazio in modo preciso, ne registra la distanza dagli esseri umani e dalle altre creature viventi, animali o piante che siano. Con questa condotta si determina la forma del loro mondo interiore, di conseguenza il comportamento in quello tridimensionale, poi nella dimensione virtuale e, in un domani già presente, nei sempre più sorprendenti ambienti dell’intelligenza artificiale. Senza contare che solidarietà ed empatia sono il motore del progresso.

Differenze tra egoismo ed egocentrismo

«Queste parole sono parenti strette: indicano comportamenti che perseguono il medesimo obiettivo, cioè mettere se stessi al centro dell’universo», risponde il dottor Barrilà, psicoterapeuta. «Voglio, comunque, fare una precisazione a riguardo. Tutti questi atteggiamenti nascono da uno stimolo “innocente”, che accomuna qualsiasi essere umano: ciascuno di noi è spinto dalla necessità di essere “visto”, liberato dall’angoscia dell’anonimato, che in un mondo sempre più rapido e competitivo come il nostro ci opprime come mai era accaduto in passato.

Viviamo, ora, per salvarci dal timore di passare inosservati. Questa è la meta verso la quale tutti ci muoviamo, ogni giorno. Ecco, fino a tale punto, l’individualista somiglia a tutte le altre persone, vuole le stesse cose, la differenza è che lui cerca di realizzare siffatti scopi comportandosi come se il prossimo non esistesse o, peggio, camminandoci sopra. L’altro, insomma, è assente dal suo orizzonte, e qualsiasi atto (tipo andare in auto a folle velocità, per stupire con una diretta “social”) è giustificata, pur di dimostrare la sua unicità e superiorità».

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