Si fa denuncia dell’orrore di ogni guerra il volume, edito da Delta 3, del magistrato Matteo Zarrella dedicato alla memoria di Albino Carbone, lo zio eroe, costretto a vivere sulla propria pelle la sofferenza dei lager, da cui non tornerà mai più. Un’immagine, quella di Albino, che campeggia “Nella casa dei nonni. Bene in vista nella cornice d’argento, nella stanza più bella della casa. Zio Albino compare in uniforme, con il berretto a visiera, con la bianca stelletta. Indossa con la divisa il prestigio dell’Esercito, Indossa con la divisa il prestigio dell’Esercito, l’orgoglio delle stellette, gli ammaestramenti d’Accademia: l’amore per la Patria e per la bandiera tricolore, l’onore del soldato, il prestigio dell’ufficiale”. Un’assenza avvertita con forza in famiglia, nei discorsi, nelle parole non dette, negli insegnamenti tramandati ai nipoti, di qui l’idea del giudice Matteo Zarrella di mettersi sulle tracce di quel soldato, di ripercorrerne la storia, partendo da documenti, racconti, testimonianze di chi come lui è stato prigioniero. “Nella casa dei nonni. nei diari e nei memoriali, usciti dai reticolati dei lager – scrive Zarrella – Albino Carbone non ha scritto un suo diario, ma la sua storia trova un riflesso nelle voci, nelle testimonianze dei diaristi, suoi compagni di viaggio che hanno vissuto con lui emozioni, paure, ansie, in uno stato di prigionia sofferto giorno dopo giorno. Dei compagni di lager Albino si fa voce ed interprete”.
“Albino – scrive ancora Zarrella – lo zio che ci manca. Andato in guerra, dato per disperso fin quando una cassetta perviene a Lapio, come una urna funeraria, ad annunciarne la morte. Albino, un vuoto di memoria da riempire. Non vuole essere solo un ricordo fotografico. Provvisto della fotografia, di scarni documenti, della mappa cartografica dei luoghi che hanno testimoniato della sua presenza, mi metto in viaggio sulle tracce di Albino nel suo ultimo percorso di vita”. Un legame forte, quello di Albino con la sua famiglia tanto da promettere, in una lettere inviata a casa, al padre, alla madre e alla cara sorella Gilda, un regalo per le feste di Natale: una bella radio. Una promessa che si affianca ai consigli rivolti alla sorella perchè non trascuri le attenzioni di Goffredo, l’uomo che poi sposerà “Perché tratti con tanta diffidenza Goffredo? Ti diverti a maltrattare chi, caduto nella rete, non riesce a liberarsene e, per quanti sforzi faccia, non può divincolarsi dalla morsa che tu, con diabolica arte, stringi sempre più tenacemente intorno a lui. Non hai più alcuna pietà. Abbi l’animo disposto a perdonare ed a fare del bene. Se mi dai ascolto alla fine saresti più contenta che se io ti regalassi la tela occorrente per la confezione del corredo”. Insieme alla lettera, Gilda custodisce una fotografia, è quella della fidanzata di Albino, affidatagli dal fratello, nell’incertezza del futuro, nel presentimento di un mancato ritorno.
Sullo sfondo il contesto di un’Irpinia in cui l’unico credo appare quello fascista, in cui pochi mettono in discussione l’ideologia dominante, di fronte a un regime che nasconde accuratamente gli orrori già compiuti, come lo sterminio di popolazioni d’Etiopia dissolte nel gas e l’ingiustizia delle disumane leggi razziali. La prima tappa dell’odissea di Albino è l’arrivo a Tirana nella primavera del 1943, trasferito presso la Direzione di Commissariato dell’Intendenza IX Armata. La Nona Armata è incaricata di mantenere il controllo del territorio contro i ribelli e i partigiani. Poi, la notizia dell’armistizio che ha il sapore dell’inganno. L’unico riferimento è il proclama di Badoglio: cessare le ostilità con gli anglo-americani, reagire agli attacchi di qualsiasi provenienza mentre si diffonde la notizia della fuga del re. Zarrella si sofferma a lungo sulla condizione di incertezza in cui si ritrovano i soldati italiani, costretti a decidere da soli da che parte stare. Ufficiali della Wehrmacht vorrebbero convincerli a rimanere fedeli all’Alleanza, a continuare a combattere al fianco dei tedeschi per “cancellare l’onta che Casa Savoia aveva inflitto all’Italia”, a sottoscrivere la formula di adesione: “Mi obbligo di servire in Italia nel quadro dell’arma S.S. sino a fine guerra”. Ma Albino, come la maggior parte degli italiani rifiuterà di unirsi alla SS e sarà trasportato nei lager, stipato in un carro di bestiame. Sarà una delle migliaia di prigionieri di guerra internati nei lager, per finire morente in un treno d’ospedale e approdare a Bergen Belsen. Una resistenza la sua sua che Zarrella definisce non meno eroica di quella armata.
“Con l’8 settembre – scrive Zarrella – il sentimento di popolo, di contrarietà alla guerra, manifestatosi il 25 luglio, prende gli animi del popolo in uniforme. Si fa strada un nuovo modello di italiano soldato. Non l’eroe che con sprezzo del pericolo sbaraglia ed uccide nemici in battaglia, ma il nuovo soldato che vuol sapere le ragioni di una guerra e non gli basta una chiamata di Patria, per il capriccio o per l’ambizione di un capo”. Albino deve consegnare il libretto personale, rilasciatogli dal Distretto di Avellino, la tessera, con i segni di identificazione. La scritta Stalag, con numero 58710, viene stampata a fuoco, due volte, in un piastrino di zinco da portare al collo, appeso ad un cordoncino. Il piastrino è divisibile in due parti uguali perché in caso di morte una parte gli verrà legata al collo, l’altra verrà spedita alla famiglia, come annuncio di morte. Da prigioniero di guerra diventa Internato Militare. L’obiettivo è chiaro, mantenere i militari italiani, non dichiaratisi fedeli all’alleanza, nello stato di prigionieri di guerra, avrebbe comportato, invece, il riconoscimento del Regno del Sud e la negazione della Repubblica di Mussolini. Al tempo stesso, in questo modo diventa possibile sottrarli alla protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra e all’assistenza della Croce Rossa Internazionale, così da autorizzare qualsiasi umiliazione e violenza nei loro confronti. Tuttavia, sarà nello Stalag VI C di Bathorom Emsland che Albino Carbone il 23 ottobre 1943 scoprirà l’orrore dei lager con le sentinelle pronte a sparare ai prigionieri che oltrepassino il filo spinato o che abbandonino le baracche durante la notte. Mentre un sottocampo ospedaliero, con le sue luride quattordici baracche, accoglie i prigionieri malati, destinati a morte sicura.
Zarrella ricostruisce nel dettaglio i gelidi campi della Polonia, da Biala Podlasca a Deblin. Costante il tentativo di convincere i soldati a passare dalla parte dei tedeschi, a combattere con Mussolini, come ripetono i Cappellani di Biala Podlaska. Le stesse lettere dei familiari sono usate come mezzo di persuasione. “Ho ottant’anni, sono sola al mondo, non ho che te. Ti scongiuro, ti prego in ginocchio di tornare, di firmare qualsiasi cosa, ma di tornare. È tua madre che ti prega, è tua madre che ha diritto di rivederti prima di morire. Adesso non mi potrai dire che ci sono ancora dei doveri con tutta la confusione che è nata. Ho saputo che il Marino è rientrato”. Il freddo e la fame sono i nemici contro cui combattere, il rancio quotidiano è una brodaglia con una rapa o una patata a galleggiarvi dentro, e una misera razione di pane.
Dal lager il sottotenente prigioniero Carbone Albino, n. 58710, spedisce al padre Luigi, in data 13 novembre 1943, una lettera, per assicurare di essere “vivo” e rintracciabile a Biala Podlaska. “Carissimo padre, godo di ottima salute ed il mio spirito è elevato e Vi prego di non soffrire per l’attuale mia posizione, il trattamento è discreto. Curate gli interessi della famiglia mantenendo in essa calma e tranquillità. Preparatemi un pacco per mezzo del quale mi inviate cibarie e tabacco. Vi invio il mod. per la sped. Albino”. La famiglia tira un sospiro di sollievo ma è evidente che anche Albino soffre la fame e ha bisogno di tabacco da smerciare in cambio del pane. Tutto è ridotto a commercio in quelle baracche. Con enorme sofferenza alcuni si privano di catenine e di anelli d’oro, di orologi, da svendere per pane e sigarette. Lo stesso Albino dovrà rassegnarsi a non ricevere pacchi, cedendo il modulo per le lettere, in cambio di un po’ di pane. Per lavarsi gli internati ricorrono, in lunga coda, ad una pompa azionata a mano che eroga acqua infetta e imbevibile. Quella condizione somiglia alla vita dei dannati in un girone infernale. Stremati, 2.770 ufficiali italiani internati vanno a firmare l’adesione. Uomini come il tenente Lazzaro che dice d’esser preoccupato per le sorti della famiglia residente in una Roma esposta ai bombardamenti degli “alleati”.
“Nel lager di Biala Podlaska, Albino custodisce il suo No, come un giuramento sacro, raccogliendo tutte le forze possibili per poterlo rinnovare. Gli è dato, di riparo dal freddo, un pastrano e, in mancanza, il cappotto appartenuto a un russo morto di tifo petecchiale o ucciso dal colpo di sparo della sentinella appostata alla torretta. In 145 restano convinti del No”. Nel gennaio del 1944, per sparigliare il gruppo degli irriducibili di Biala Podlaska, il Commando tedesco decide il trasferimento di una parte di loro, Albino compreso, nella Fortezza di Deblin: una costellazione di lager, capace di ingoiare centomila prigionieri. I tedeschi propongono agli IMI l’arruolamento al lavoro volontario in territorio italiano ma per Albino il rifiuto è l’unica scelta possibile. Ai primi di marzo del 1944, unito a centinata di internati, tenuti stipati in due vagoni, Albino lascia Deblin alla volta di Sandbostel. Il treno attraversa la Polonia ed entra in Germania. La sua storia si intreccia a quella di uomini come Bruno Betta che incanta i prigionieri con le letture di “Dante”, tratte da un libricino hoepli – l’hoeplino – conservato gelosamente in un taschino mentre Lazzati, detto il professore, passa tra le camerate per dare sostegno ai depressi, sciogliere dubbi agli incerti e organizza gruppi di studio per le sue conferenze. Si legge Ungaretti, Saba Cardarelli, si studiava filosofia mentre la radio clandestina Caterina contribuisce a dare speranza.
Storie come quelle del calabrese Vincenzo Romeo che cade il 28 agosto del 1944, sotto i colpi di fucile della sentinella alla torretta, mentre è in fila alla fontana e accosta l’asciugamani al filo spinato. Scene che non possono lasciare indifferenti. Eppure, in pochi si fanno tentare dalla possibilità di uscire dal lager, anche quando viene proposto loro di aiutare i contadini tedeschi nella raccolta delle ciliegie. Nell’agosto del 1944, a seguito di accordi intercorsi tra Mussolini ed Hitler, gli ufficiali italiani internati vengono dichiarati per legge liberi lavoratori civili. Albino è selezionato come uno dei cinquecento IMI da mandare a lavorare in Amburgo, in una fabbrica di medicinali, spogliato delle stellette, delle mostrine, di quanto gli era rimasto della divisa di tenente.
Il giorno di Pasqua del primo aprile del 1945 è ricoverato nell’ospedale di Amburg-Altona, affetto da grave malattia (tubercolosi) e da grave deperimento organico. Chiede d’essere dimesso, insieme ad altri ricoverati, dall’ospedale di Amburgo e farsi portare con una branda in un vagone del treno-ospedale gestito dalla Croce Rossa. Il treno ospedale si ferma a Bergen Belsen per scaricare moribondi al GLYM HUGHES HOSPITAL, gestito dagli inglesi. Tra loro c’è anche Albino. Un certificato lo dichiara morto, in data 8 settembre 1945, per paralisi cardiaca. A ricordarlo a Lapio è una stele marmorea con l’elenco dei caduti ma la sua memoria è diventata un patrimonio da custodire per tutta la comunità.. Lo sottolinea più volte Zarrella che punta l’indice contro le responsabilità dei potenti, da Mussolini a badoglio, e le omissioni di chi sarebbe potuto intervenire e non lo ha fatto, a partire dalla Chiesa, mandando al martirio tanti giovani soldati. Un libro che è un monito rivolto alle nuove generazioni.
Il volume sarà presentato il 27 gennaio al Palazzo Filangieri di Lapio. A confrontarsi con l’autore il sindaco Maria Teresa lepore, il vicesindaco Pasquale Carbone, i professori Pasquale Areniello, autore della prefazione, Ottavio Di Grazia, Fiorenzo Iannino e il dott. Albino Zarrella