Educazione affettiva, perché insegnarla agli adolescenti

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L’ora di educazione affettiva non esiste, né a scuola né in famiglia. La riprova è nell’analfabetismo sentimentale imperversante, che soffoca le prime esperienze degli adolescenti ed esplode nella vita adulta in versioni deformate della relazione di coppia. In quell’espandersi di Sentimenti maleducati (Feltrinelli), come recita il titolo dell’ultimo libro dello psicopedagogista Stefano Rossi, che “rapiscono” i ragazzi e li portano lontano dal vivere legami sani e socialmente costruttivi.

A Starbene l’esperto ha descritto i vuoti della cultura amorosa tra i giovanissimi, suggerendo come riempirli con il sostegno degli adulti, a iniziare dai genitori.

L’amore si può insegnare?

Sì, emozioni e sentimenti non sono la stessa cosa. Le prime (felicità, sorpresa, paura, rabbia, tristezza e disgusto) sono figlie della biologia, i secondi (l’amore, l’amicizia, ma anche l’odio, l’invidia, la colpa e la vergogna) della cultura. Quindi, nasciamo con le emozioni, ma la natura non ci può dire dove cercare l’amore, che significato ha, quali trappole può nascondere. Però, se non insegniamo agli adolescenti tutto questo, li consegniamo agli stereotipi e alle distorsioni ideologiche che ci dicono che cosa pensare e che cosa sentire nei legami affettivi.

Dici che i ragazzi sono immersi in una matrioska deviante…

Come sostiene lo psicologo Jerome Bruner, la mente crea la cultura tanto quanto la cultura crea la mente. I nostri figli, esattamente come noi, sono inseriti dentro un mare sociale (e social) che, a nostra insaputa, pensa per noi, e dà significato ai nostri concetti, prima ancora che abbiano modo di formularli. Sull’eros delibera tanti pareri, sbagliati: sulla scia dei legami tra gli adulti, non riesce a durare e ripete ai ragazzi che ciò che conta davvero, non è l’amore (la relazione io/tu), ma il successo individuale (la relazione io/io).

Che volti assume?

Dalla manipolazione sentimentale dettata dal narcisismo alla dipendenza affettiva, dal controllo ossessivo ai nuovi stili (più silenziosi e subdoli) di patriarcato, violenza e aggressività. Qualche testo di musica trap o alcuni video virali possono dare l’idea della mentalità circolante, che inneggia ai soldi, al possesso, alla sottomissione femminile. Da smascherare, prima che questi inganni condizionino per sempre.

Se spingiamo i ragazzi a conoscerli, facciamo loro il favore “eterno” di capire il funzionamento reale dei sentimenti: da sempre, c’è una parte di noi che ci porta a legare, ad amare, a renderci cura di lei/lui, e una, al contrario, che distrugge, noi e l’altro. La psicopedagogia contemporanea ha ignorato l’aspetto guerresco dell’amore, ma esiste e non possiamo più coprire i sentimenti solo di una melassa zuccherosa!

Quali sono i miti che dobbiamo rivedere insieme ai giovanissimi?

Quello del partner come dolce metà, per esempio. Ha il potere di far credere che il “bene” sia l’incontro con l’anima gemella. Induce a pensare che noi ci completiamo nell’altro, uno degli errori tragici alla base della dipendenza affettiva. Con tutti i risvolti pericolosi che può avere: mi sento morire, voglio morire, o, addirittura, tento di uccidere se vengo lasciato. Quando, al contrario, l’amore non è fatto da due persone che si confondono nella simbiosi, ma da due cuori, due individualità che “danzano” l’uno accanto all’altro. È uno scambio tra due libertà.

Altri tranelli?

Oltre al controllo asfissiante e la gelosia irrazionale, cresce anche la paura anormale, ingiustificata e persistente di innamorarsi. Una specie di diffidenza, in cui il “cuore” viene guardato come qualcosa da schivare o, quanto meno, da non lasciar entrare troppo in profondità. Ma anche in coppia, al primo contrasto, il compagno diventa un ostacolo, una zavorra di cui liberarsi in fretta e senza troppi pensieri.

Si sono rovesciati i termini della felicità, oggi valore supremo: prima veniva cercata dentro i legami affettivi, oggi fuori e indipendentemente dai legami. E, l’oggetto d’amore, declassato a oggetto di felicità, finisce per diventare un passatempo, un divertissement da consumare e desacralizzare. Così, gli adolescenti (come molti grandi) cadono in un testacoda emozionale. Si ritrovano soli, fragili, sospettosi, cinici e infelici.

Siamo di fronte a una generazione sentimentalmente consumistica?

Se l’oggetto (e il suo possesso) è il signore del nostro tempo, la mercificazione dei rapporti è inevitabile. Pure il partner è una fruizione, e come tale è soggetto alla prima legge del marketing: il nuovo è sempre meglio del vecchio, pertanto, a conti fatti, abbiamo storie amorose sempre più deboli e fondate sullo sfruttamento reciproco. Tra i ragazzi, la normalità è fatta di incontri che evaporano alla velocità della luce, privi di parole e gesti teneri, promiscui. Aperti a tante possibilità ma tutte insignificanti.

Da dove parte la formazione?

Dal fare capire ai teenager la differenza tra gioia e felicità, sembra solo semantica ma non è così. Perché la felicità è l’io che è contento per se stesso mentre la gioia, più intensa e strutturante, è l’io che abbraccia il tu. Ma si può “toccare” la gioia solo se si è capaci di trovare una connessione emotiva profonda con l’altro. Ecco il bivio, fuorviante: se si sceglie la felicità, rimaniamo nel campo dell’emozione fugace e generica; se si sceglie la gioia, il sentimento è un ponte che costruisce un legame.

In pratica, come si indirizzano i ragazzini verso un amore onesto e “pulito”?

Da una parte dobbiamo sostenerli a costruirsi l’individualità, dall’altra aiutiamoli a spezzare l’utopia contemporanea dell’io che basta a se stesso. Sono due sponde che si possono unire e portano a raggiungere preziose competenze affettive: la connessione (il prendersi cura reciproca dell’altro); l’autodifesa (l’affermazione dei confini personali), la saggezza (il riconoscere i segnali degli amori tossici), ma anche la resilienza (per risorgere dopo la fine di un rapporto).

Cos’altro si può fare?

Pensiamo con i più giovani anche ai gesti dell’amore. Possono essere piccoli piccoli, inaspettati, magari banali ma sono dettagli sempre illuminanti: poetizzano il rapporto, lo rendono delicato, intimo ed esclusivo. Fatto di tempi lunghi, dove la pazienza s’ispira ai momenti migliori e dimentica i periodi bui. E ci ricordano, soprattutto, che la felicità non è nella solitudine dell’io ma nell’abbraccio del noi.

L’importanza delle storie

“Stai attento a questo o a quello”; “guarda che è successo”; “dicono che…”, e parte la nostra valanga di notizie “istruttive”: no, sommergere i figli di informazioni sui trabocchetti dell’amore non è uno scudo formativo e, tantomeno, difensivo. «Lo strumento principale dell’educazione sentimentale è la narrazione di storie», spiega Stefano Rossi.

«In questo libro, uso quelle mitologiche, per esempio. Qualsiasi narrazione, che sia un ricordo di vita, un caso di cronaca, una testimonianza letteraria, mette ordine nella mente (il pensiero si organizza per storie) e sorregge nel compito più difficile: dare un orizzonte ai nostri figli. Le storie hanno sempre un protagonista in cui rispecchiarsi, un’insidia in agguato e una strategia simbolica grazie alla quale riguadagnare la propria saggezza e libertà sentimentale. Ancorano, insomma, all’essere e incoraggiano a essere. Mentre le informazioni sono punti senza direzione (rimangono sempre aperte), disorientati e disorientanti.

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