Ad Avellino, nei 19 anni di massima serie, sono passati molti allenatori importanti. Alcuni sono arrivati già affermati, per altri la Scandone è stato un trampolino di lancio per un ruolo da head coach in massima serie per la prima volta in carriera. Andrea Capobianco è uno di questi.
Dopo le eccellenti esperienze a Jesi e Teramo, Capobianco riveste un ruolo di rilievo nell’organizzazione della Nazionale: è coach del team femminile, assistente part time di Sacchetti, responsabile dell’intero settore squadre nazionali giovanili.
Abbiamo intercettato il coach per capire come crede si debba intervenire in questo momento in cui la pallacanestro nostrana sembra voler cambiare alcuni dei suoi postulati, proprio partendo dai giovani.
In questi giorni in cui si parla tanto di riforme, dato il suo ruolo di responsabile del settore squadre nazionali giovanili, come creda che si debba intervenire per migliorare in questo campo?
“Ci sono due aspetti che ritengo molto utili. In primis che se ne parli, perché questo significa che c’è volontà di crescita. Questo, però, non deve essere solo un fatto di moda. A me piace l’idea di parlarne per trovare un modo per migliorare. Per farlo la prima cosa è guardarsi dentro e capire cosa si può fare per salire di livello. Ho sempre applicato questo postulato per gestire la mia vita e credo sia importante dividere tutto in limiti superabili e insuperabili. A mio avviso la prima cosa da fare è proprio capire cosa si può fare e cosa no. Il secondo aspetto è che ciò che viene fatto in Italia nei settori giovanili non va buttato via. Ci sono molte cose positive: i risultati di squadra e, specialmente, quelli dei giovani. Quando si parla di settore giovanile è sempre importante porre l’accento sui risultati individuali dei giovani oltre che su quelli di squadra, e all’interno delle tante medaglie e degli ottimi piazzamenti di questi anni, ci sono tanti risultati positivi anche dei singoli. Chiaramente da quando anche io sono coinvolto, spiccano un secondo posto ai mondiali e i bronzi conquistati con under 18 e under 16, ma ci sono anche tanti giocatori nei migliori quintetti d’Europa e del Mondo. Il massimo è forse rappresentato da Totè, votato come migliore dell’All Star Game, e da Bucarelli e Oxilia, entrati nel miglior quintetto del mondo. Questi sono dati e si deve partire da questo per far comprendere che non siamo all’anno zero. Ci sono tanti bei prospetti e manca solo qualche miglioria”.
Per apportare queste migliorie, da dove inizierebbe?
“Sicuramente vedo due carenze, due aspetti sui quali lavorare: il passaggio 18-23 anni e il reclutamento nelle scuole medie. Nella prima fascia d’età manca qualcosa a livello di formazione, intesa come percorso che una persona fa; nella seconda posso dire che ci sarebbe bisogno di migliorare proprio il reclutamento, tornando un po’ alle leve cestistiche di una volta. A quei livelli bisognerebbe un po’ confrontarsi per capire come avanzare”.
In che modo gli allenatori possono partecipare a questo processo?
“Il compito di un allenatore è quello di allenare. Farlo significa, dalla lingua italiana, dar lena, dare forza. Nel momento in cui io faccio bene il mio dovere di allenatore, do forza alla persona che sto allenando. Dare forza solo al gesto tecnico è qualcosa di troppo povero. Dare forza è una cosa più ampia, più profonda. La tecnica è il linguaggio dei giocatori, ma dietro il tiro c’è una persona e noi dobbiamo allenare anche quella, ricordando che ognuno è diverso dall’altro. Ad esempio ad Avellino avevo giocatori molto diversi tra di loro: Bobbitt era molto diverso da Brandon Brown o Davide Bonora. Ma ognuno di loro andava allenato con un progetto individuale all’interno del contesto squadra”.
Tornando invece ai “grandi”, in questo momento in cui molte società, sia di A1 che di A2, stanno vivendo grosse difficoltà, lei cosa crede che si possa fare per evitare che questa situazione si ripeta in futuro?
“Noi tutti aspettiamo le regole per avere delle opportunità. Invece le crisi sono momenti che vanno letti come semplici opportunità. Io da responsabile tecnico posso parlare proprio delle possibilità che questa crisi ci sta offrendo. Ho allenato, per fare un esempio, molte squadre dove non c’erano tanti giocatori alti 210 centimetri. Questo poteva diventare un momento di pura lamentela o un’occasione per formare i giocatori in altri reparti. Noi ci troviamo in una crisi che non riguarda solo la pallacanestro e va affrontata cercando di capire come sfruttare i punti positivi. Nel nostro caso, quello del basket, potrebbe essere quello di avere roster dove ci siano molti giovani che abbiano il giusto spazio per giocare ed esprimersi. Bisogna lavorare sulle situazioni che possono produrre qualcosa sulle prime squadre, come appunto i settori giovanili”.
Lei è parte della commissione che ha stilato il protocollo sanitario per il ritorno all’attività. Ci spiega come avete elaborato il documento e come pensate di muovervi nei prossimi mesi?
“Oggi la situazione è, secondo me, molto chiara: le regole del gioco non le fanno quelli che di solito le stabiliscono. Né arbitri, né dirigenti. Le regole le decidono gli scienziati della materia. Loro ci daranno la cornice di un quadro al cui interno noi allenatori ci dobbiamo muovere per preparare le cose. Ci auguriamo che queste cornici man mano diventino sempre più grandi per inserire sempre più cose. Noi come commissione tecnica, ad oggi, abbiamo ascoltato i pareri degli esperti e abbiamo buttato giù degli esempi di esercizi. Speriamo di poter aggiungere cose nuove il prima possibile. Ma ora ci dobbiamo solo rifare alla scienza, non dipende da scelte tecniche. Ascoltare chi ha studiato, e studia ancora, il virus mi sembra la cosa più naturale. Affidarsi agli specialisti del settore è una forma di crescita e di rispetto dei ruoli. Fare i tuttologi non mi piace e non è neanche formativo”.
Ad Avellino ha avuto la prima occasione in massima serie come capo allenatore. Che ricordi porta di quella esperienza?
“Io sono molto legato ad Avellino e nell’ambiente lo sanno tutti. In generale mi sento molto fortunato perché ho sempre fatto il mio lavoro in piazze che mi hanno fatto sentire a casa. Anche ad Avellino è stato così e sono rimasto molto legato sia per quanto riguarda le giovanili che per la città in sé. Io ho lavorato con grandi persone e ho avuto la possibilità di allenare ragazzi come Parlato e Ferrara anche quando sono diventato capo allenatore. I loro minuti in campo contro quei campioni sono cose che non dimenticherò mai, perché vederli in serie A è stato davvero appagante. Quell’anno abbiamo avuto tante difficoltà e sappiamo come è finita, anche complice l’assenza nelle ultime tre gare di un americano importante come Bobbitt. Ma vedere i tifosi a Milano, quando vincemmo senza David Young in un match incredibile, è una cosa che mi ha dato davvero tanta forza e mi ha aiutato a credere in tanti progetti anche nel proseguimento della mia carriera. Anche le lacrime versate nel ritorno da Reggio Emilia, quando sapevamo come sarebbe andata, sono un grande ricordo: noi non eravamo riusciti a fare qualcosa di incredibile, ma quando dico noi intendo la città. Quando noi entravamo in campo non c’erano i 12 giocatori, giocava l’intera città. Tutte queste cose sono scolpite nella mia mente. Spero che un domani Avellino possa tornare al livello che merita”.