Alessandra Faiella e il diritto di invecchiare: «Grazie terza età»

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L’età ingrata è un porto che non esiste. Ma sembra di approdarci ogni volta che pensiamo ai nostri sessanta e più anni. Del resto di cosa dovremmo essere riconoscenti? Ogni giorno che passa è una cellula di tonicità in meno per il corpo, una goccia d’energia in meno per la mente, uno spunto di vitalità in meno per qualsiasi prospettiva futura. Mentre tutto intorno si celebra il perenne trionfo della giovinezza vita natural durante. Sì, la vecchiaia è uno stigma, una condanna che colpisce chi ha passato tot primavere, e infierisce con la rassegnazione dell’Eden perduto una volta per tutte.

A meno che non si faccia sentire una voce dissacrante, intenzionata a rivendicare l’orgoglio di essere entrati nel terzo tempo. Un po’ coming out (“ammetto di avere una certa età”), un po’ compiacimento (“me la godo lo stesso”), questa rivolta ha il volto dell’attrice comica Alessandra Faiella: ha portato in scena il monologo Age Pride, tratto dall’omonimo libro di Lidia Ravera, durante il Festival della Mente che si tiene a Sarzana (SP) dal 30 agosto al 1° settembre e che quest’anno è dedicato alla gratitudine.

Per ringraziare una stagione, quella della maturità avanzata, che ci toglie tanti obblighi e ci dona una libertà consapevole che, a 20 anni, era come andare sulla Luna. Basta guardarla, ed è lì in tutto il suo splendore, con la sua luce che illumina la nostra voglia di continuare il viaggio della vita, e non fermarsi a contemplarla sottomessi lungo il suo cammino. Perché, come diceva il filosofo James Hillman, la più grave patologia della vecchiaia è l’idea che se ne ha. E se non la cambiamo, avremo vecchiaie tristi.

Alessandra Faiella, ti rivedi nel tuo spettacolo?

Eccome, questo impegno è capitato in un periodo di ripiegamento. Ero arrivata a quell’età, in cui la tentazione di chiudere con tutto era forte, avevo anche pensato di non andare più in scena. Ma la lettura del copione è stata una “scossa”: no, è ancora presto per ritirarmi. La mia esperienza di donna, di attrice, di comica può dire ancora qualcosa agli altri. Non posso cambiare le sorti dell’umanità, certo, ma se sono capace di salire sul palco, interpretare le parole dell’autore o veicolare io stessa un’opinione, un messaggio, è importante. Ognuno, nel suo piccolo, può dare un piccolo contributo al mondo.

In questo caso, che appello fai?

Noi tutti abbiamo il diritto di invecchiare, e possiamo essere orgogliosi di farlo. Ma per riuscirci bisogna allontanarsi dagli stereotipi che, se assunti in modo acritico, ci hanno portato ad avere paura dell’età che avanza. ll terzo e il quarto tempo della nostra carriera di esseri umani, infatti, è ancora chiuso dentro a gabbie che scansano, quasi cancellano la senilità in nome di un ageismo sovrastante. E ciò succede in un Paese come l’Italia in cui un terzo della popolazione è ultrasessantenne, un dato che non si può ignorare.

La sfida è importante?

Inutile nasconderlo: dai sessant’anni in poi, siamo ormai nella terza età. Ma mentre prima si diventava anziani e si moriva poco dopo la pensione, ora per la prima volta nella storia dell’umanità ci aspettano venti, anche trenta anni di vita. Un intervallo troppo ampio (e aggiungerei significativo) per buttarlo via o viverlo come una via Crucis.

Però, per molti è un tempo fragile…

Soprattutto per le donne. Dopo il sessantesimo compleanno inizia la stagione dell’incertezza massima, non sei più una persona di mezza età come a 50 ma neppure una di 80. Questo è il periodo in cui l’autostima sbanda, e si fanno più stringenti le ansie sui segni del tempo nel viso, sulla perdita dell’attrattiva sessuale, sulla salute, sulla vulnerabilità mentale. Siamo un vulcano d’insicurezze, in continua eruzione, attivato dalla pressione sociale. Da sempre ci è stato chiesto di essere desiderabili, ma adesso più che mai dobbiamo essere giovani e belle senza sosta. Abbiamo ingoiato, almeno nella maggioranza dei casi, degli standard nocivi, senza mai metterli in discussione. Ma che ci fanno sentire da rottamare.

Da dove partire per ribaltare questo cliché?

Da “non faccio di tutto per ritornare la ragazza che ero”, illusorio e svalutante nell’impatto con la realtà, ma “faccio di tutto per valorizzare altre capacità” che abbiamo acquisito di stagione in stagione: intelligenza, saggezza, ascolto, empatia, leggerezza. C’è un pezzo divertente, nello spettacolo, in cui dico: “se qualcuno ci avesse insegnato a sculettare con il cervello”, avremmo vecchiaie migliori. Nessuno sostiene che il corpo debba andare in pensione, c’è sempre e curarlo è un atto, legittimo e auspicabile, di amore proprio. Ma da qui a stravolgerlo per sentirsi ancora pimpanti ce ne passa…

Ci vuole ironia, sembra…

È il mio Vangelo, cerco di usarla a piene mani. Quasi sempre l’umorismo, soprattutto quello rivolto verso noi stesse, è una chiave vincente in tutte quelle situazioni in cui ci facciamo fagocitare dall’ansia, dallo stress, da problemi ingiustificati. Ci permette di guardarci con distacco, e solo quando siamo lontani da noi i nostri piccoli drammi quotidiani finiscono per farci ridere. E con il sorriso, quanta meno tensione inutile su tutti i fronti!

Sentirsi giovani dentro basta?

Non giovani, ma agili. È un’altra strategia di sopravvivenza, per trasformare il tempo in alleato, e non in un nemico che aspetta solo la nostra resa incondizionata. Siamo poco, pochissimo abili a farlo, a essere sinceri. A ogni scatto anagrafico in avanti, tendiamo a irrigidirci, a porci in una posizione di difesa, e allora via con lamentele, frustrazione, rinunce da rassegnati cronici. Eppure la terza età può essere una terra da conquistare, con l’attenzione e la curiosità che merita. La vita non finisce mica per sorpassati limiti angrafici, anzi. Bisogna solo trovare nuove motivazioni, e cavalcarle.

Qual è il salto di qualità?

Adattarsi ai cambiamenti che l’età ci offre. Spaventano, sono faticosi ma ci ripagano con qualcosa, almeno di interiore, che prima non avevamo. Da questo successo, impensabile e irraggiungibile da giovani, nasce la gratitudine per la terza età.

A cosa guardare?

A niente che non sia intimamente nostro. Non ci sono modelli di vecchiaia felice a cui ispirarsi. I giorni del terzo e quarto tempo sono come stanze da arredare, a gusto personale. In ogni caso, occorre lavorare con impegno per avere una buona dinamica, con noi stessi e le relazioni che abbiamo. Se poi quest’agilità mentale è condivisibile e condivisa, tanto meglio, insieme agli altri l’adattamento ci verrà più facile e gratificante.

Ma un po’ di attivismo ci vuole, no?

Non c’è bisogno di fare mille corsi, mille viaggi, mille esperienze di tutti i generi per invecchiare bene. Il super dinamismo è un’altra ansia giovaniforme che ci intrappola nel panico dell’età, da sconfiggere con un impegno dietro l’altro. Per me, l’auto conservazione è altro, ascolto i miei ritmi, i miei tempi. Un giorno sono up, un altro meno ma mi adeguo. Sono diversa rispetto a 30 anni, ma soprattutto non mi interessa fare quello che facevo prima. Se ricominciamo con questi diktat, del dover essere così o cosà, che invecchiamo a fare? Se vogliamo dire grazie alla “grande adultità” è per l’autenticità e la libertà che ci regala. Finalmente siamo responsabili delle nostre scelte, delle nostre azioni.

E con il confronto generazionale?

Senza barriere di giudizio da una parte e l’altra sarebbe un allegro sodalizio. Però, noi “vecchi” agitiamo lo slogan di tanto vissuto alle spalle, e non ci risparmiamo con “voi ragazzi cosa capite? Sbagliate tutto, noi alla vostra età facevamo”; loro, intanto, ci dicono che siamo ormai “sorpassati”. Forse, dovremmo guardarci gli uni con gli altri con più umiltà: alla resa dei conti, non siamo così diversi e lo scambio reciproco di esperienze differenti è un’occasione di crescita per tutti. Di più, convince che quella “simpatica nonna” è la testimonianza che la vita dura tutta la vita.

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