Andar per sagre | Corriere dell’Irpinia

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Di Nino Lanzetta

Con il mese di luglio cominciano le sagre. Ogni paese ha la sua. Alcuni ne hanno anche due o più. E’ il divertimento più popolare per chi non può permettersi il mare o la montagna. In più, con pochi soldi, si mangia e si fanno quattro salti in piazza al suono della tarantella o di musica popolare. Comincia alla grande Castelvetere – uno degli antesignani delle sagre cominciate negli anni settanta-con la sagra de lo ucciolo, che si rifà ad antiche tradizioni della civiltà contadina quando tutte le famiglie facevano il pane nel forno di casa che tutti avevano. Il rituale della confezione era sempre lo stesso e si ripeteva ogni quindici giorni o addirittura ogni sette per chi aveva una famiglia numerosa e molte bocche da sfamare. In una capace madia “martora” si impastava la farina, (che si era portata a macinare al mulino il giorno prima), con sufficiente acqua calda nella quale era stato sciolto il lievito “criscito”, che chi non aveva si faceva prestare dalla comare che aveva panificato i giorni precedenti, ed era costituito da un po’ di pasta lievitata che si conservava per l’occasione. La pasta bisognava lavorarla bene, a forza di bracciate a pugni chiusi, aiutandosi spesso con i gomiti e sudando non poco per la grande fatica fisica che si faceva. I capelli legati in testa sotto un fazzoletto, per non farli cadere nell’ammasso e spesso asciugandosi il sudore con il braccio o con il bordo del “vantesino” il grembiule che tutte le massaie portavano sulla gonna per non sciuparla e per proteggerla dagli schizzi di cucina. Quando la pasta era ben lavorata e soda al punto giusto, si tracciava sopra, con un coltello, una croce a mò di buon augurio, per una buona riuscita. Si copriva la “martora”, che, di solito, era situata vicino al focolare, con delle vecchie coperte – quelle militari andavano benissimo- e si lasciava lievitare per alcune ore. Intanto si accendeva il forno, dapprima con un po’ di ginestra secca, perché di carta ne girava poco in casa, poi con i rami sottili dei “sarcinielli” e via via con tronchi più spessi. Quando la volta del forno diventava bianchissima, si scostava un po’ di brace dalla parte vicina alla bocca del forno, si puliva con “lo munnolo”, una specie di scopa fatta con larghe foglie di aceri o castagni o con qualche straccio, si scopriva la “martora” tanto da farci entrare una mano e, senza coltello, con le sole dita, si tirava fuori un po’ di pasta che si allargava, con le mani o con l’aiuto di un mattarello, in forma circolare di una quindicina di centimetri di diametro e s’informava. Pochissimi minuti ed oplà “lo ucciolo” usciva scottante e invitante dal forno sotto lo sguardo soddisfatto della mamma e l’ingordigia dei bambini che, ancora con la bocca piena correvano a rompicollo per le scale a riprendere i giochi interrotti. Oggi si mangia seduti ai tavoli, anche se i nostalgici preferiscono consumarlo in piedi, senza companatico, o al massimo, con una leggera fetta di pancetta e un bicchiere di aglianico, mai con la birra o, peggio, con la coca cola, che sarebbe considerato un sacrilegio!


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