Un titolo NBA. Niente, più dell’anello consegnato ai vincitori del più prestigioso campionato di pallacanestro del mondo, può essere più importante per un giocatore di basket. The League, come la chiamano in tutto il globo, è la casa dei più grandi talenti del mondo, da Lebron James a Kevin Durant, passando per Steph Curry, Jimmy Butler, Kawhi Leonard fino ad arrivare ad astri nascenti come Luka Doncic e Nikola Jokic. Ma la NBA non vive solo di stelle. Ci sono anche i cosiddetti role player, i giocatori di ruolo.
Nella cavalcata che la scorsa notte ha portato i Los Angeles Lakers alla vittoria del loro diciassettesimo titolo, tra i tanti personaggi di culto per gli appassionati, c’è sicuramente Alex Caruso. Un nome e un cognome tutti italiani (o quasi), e quell’aria da giocatore fuori contesto ne hanno fatto già dalla stagione regolare uno dei più seguiti giocatori tra quelli a disposizione dei gialloviola. Ma Caruso non è solo un personaggio, bensì un pezzo fondamentale dell’ingranaggio che gira intorno alla luce che Lebron James e Anthony Davis irradiano ogni volta che calcano un parquet. E Caruso, che di italiano purtroppo ha solo il nome, è stato molto vicino alla Scandone quando Nicola Alberani era il DS della squadra e Nenad Vucinic era il coach.
Era l’estate del 2018 e Alberani si apprestava a comporre il primo roster ad Avellino in contumacia Sacripanti. Una squadra, quella, che partì con Norris Cole tra le sue file e che, dopo le prime avvisaglie dei problemi che avrebbero poi travolto la proprietà e il club, finì con il giocarsi una emozionante gara 5 al Forum di Assago contro Milano, guidata da Massimo Maffezzoli.
Al posto di Cole, poi andato via a dicembre, per qualche giorno nella testa del DS ci sarebbe dovuto essere proprio Caruso. Ma nel mercato, si sa, non sempre va tutto come previsto e un colpo che Alberani avrebbe fortemente voluto sfumò nelle ambizioni NBA del giocatore, poi per sua fortuna avveratesi.
Abbiamo intercettato proprio Nicola Alberani per parlare di quella trattativa, scoprendo che una reale possibilità di vedere il neo campione NBA vestire la canotta biancoverde è esistita realmente.
“Era una trattativa nata perché sin da quando era un senior al college lo avevo notato. Ci fu una partita della sua Texas A&M nella quale fecero una rocambolesca rimonta negli ultimi due minuti e mi saltò subito all’occhio. Un po’ fu il cognome italiano, certamente, ma erano le sue caratteristiche ad impressionarmi: è un play molto grosso fisicamente che gioca all’europea, che gioca per i compagni. Era così sin dal college. Approcciammo con l’agenzia, tra l’altro una delle più importanti, e facemmo qualche indagine per capire le sue origini. In realtà scoprimmo che suo padre, che era l’athletic director del college dove lui ha giocato, era già americano, solo i nonni erano originari del nostro paese. Devo dire che anche Caruso stesso si sentiva molto americano. In realtà avevo creduto che un giocatore con quelle caratteristiche, in quel ruolo, sarebbe potuto essere molto utile anche alla nazionale”.
Ma il reale problema non fu solo il poco interesse verso la maglia azzurra, quanto le ambizioni di Caruso, desideroso di giocarsi le sue carte oltreoceano.
“Riscontrammo un limitato interesse verso le sue origini italiane, ma il problema per noi fu che la sua grande ambizione era la NBA. Ci eravamo accordati per risentirci qualche settimana più tardi, così come spesso si fa con questi giocatori giovani che danno priorità alla NBA, ma come a volte accade quei giorni lo hanno poi portato più vicino alle sue ambizioni. Noi abbiamo provato con le forze che avevamo, ma purtroppo non è stato sufficiente per sedurlo. A mio avviso, comunque, è davvero un grande giocatore”.
Eppure, al di là delle facili considerazioni a posteriori, in un roster dove già ci sarebbe sicuramente stato Keifer Sykes, la presenza di un play come Caruso, sempre a disposizione dei compagni, avrebbe potuto fare molta differenza.
“La trattativa era precedente a quella di Cole. Avevamo pensato che accoppiarlo con Sykes fosse un rischio calcolato. Venivamo da tre anni di Leunen e trovare un altro americano di quel genere, più propenso al gioco di squadra che a guardare le sue statistiche, avrebbe giovato non poco alla nostra organizzazione. Nella costruzione di una squadra, d’altronde, non si possono di certo avere tutti giocatori propensi a tirare più che a passare”.