Berlinguer e la questione morale

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Di Ranieri Popoli

Tra le formule riconducibili a Enrico Berlinguer quella della cosiddetta “Questione morale” risulta essere dal punto di vista dell’interpretazione politica ancor oggi la più controversa, non fosse altro per le molteplici versioni  che le vengono attribuite da diversi ambienti politici, culturali e  storiografici. Se dovessimo ricorrere a una semplificazione di comodo, facendo riferimento  anche alla vasta pubblicistica e al dibattito sviluppatosi in tutti questi anni,  i due filoni che idealmente raggruppano tali posizioni potremmo ricondurli a uno di orientamento propositivo e a un altro  declinato in direzione del tutto opposta. Naturalmente non finiremo per addentrarci in questo intervento in una critica   alquanto manichea perché non aiuterebbe di certo a comprendere la complessità dell’argomento, che si rivelerà essere in primis un discrimine del confronto interno del PCI della prima metà degli anni Ottanta e successivamente uno degli snodi fondamentali del turbolento cambiamento del nostro  sistema politico. La  nascita della questione morale, dal punto di vista della politica berlingueriana, per la maggiore è il 29 luglio 1981, quando il quotidiano “La Repubblica” pubblicò una lunga intervista del Direttore Eugenio Scalfari al Segretario generale del PCI. Ma per comprenderne le origini bisogna fare un piccolo passo indietro e giungere al 1979 allorquando il PCI, in modo alquanto repentino, all’indomani dell’arretramento elettorale registrato nelle elezioni politiche anticipate di quell’anno, decide di interrompere , almeno nelle modalità presupposte durante i governi della “solidarietà nazionale”, quell’esperienza. Un inversione di marcia che prenderà corpo all’indomani della catastrofe tellurica che il 23 novembre 1980 colpì la Campania e la Basilicata laddove ai tanti morti, ai feriti e sfollati si unì un’indiscutibile impreparazione dello Stato e delle strutture governative nell’organizzare i necessari interventi di soccorso. Anche in questo caso fu coniata per l’occasione una nuova locuzione che entrerà nel lessico politico berlingueriano , l’alternativa democratica, la quale intrinsecamente racchiudeva due importanti presupposti: il non essere il perseguimento di un mero cambio nel ristretto ambito governativo e di sinistra e il porla, come tutte le strategie berlingueriane,  non come una scorciatoia di potere ma come un processo con tutto il suo portato di ricchezza, complessità  ed estensione  elaborativa. Il quadro politico iniziava così un mutamento di posizionamenti che avrebbe portato a ritenere il PCI rimosso dal quadro delle compatibilità governative per circoscriverle alle forze del cosiddetto “preambolo” cioè a una formula premessa da una “conventio ad excludendum”  che si imperniava sull’asse della DC, guidata dalla ritrovata area dorotea, la destra democristiana per intenderci, e del PSI, che stava per essere totalmente egemonizzata dall’inarrestabile ascesa   craxiana, anche con metodi non esclusivamente politici, come i fatti in seguito si incaricheranno di dimostrare. Questo patto coincise con l’avvento di una controffensiva neo liberista che partendo dai paesi anglosassoni avrebbe successivamente investito l’intero Occidente ma che, per le peculiarità economiche e sociali del nostro Paese, sarebbe stata   derubricata in una formula alquanto casereccia dove il collante vero  negli assetti esecutivi,  sia centrali che periferici, era un erigendo sistema di potere che come una piovra avrebbe invaso l’intero Paese attraverso un’occupazione spartitoria senza precedenti di strutture ministeriali, regionali, provinciali, locali, nonché di Enti, banche, agenzie,fondazioni e giù per li rami. L’allarme che lancia Berlinguer, quindi, non si riferisce tanto all’aspetto fenomenologico ma propriamente politico in quanto per la prima volta, questo è il vero punto che i “critici” sembrano non aver voluto cogliere, non si evidenziava una diffusione ma l’esistenza di un sistema organico, strutturato e pianificato. Lo stesso modello che l’inchiesta “Mani pulite” , sotto un aspetto stavolta squisitamente giudiziario, dieci anni dopo farà emergere, pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. La storica intervista ebbe le prime e immediate reazioni non tanto dalla parte avversaria, probabilmente presa anche di sorpresa nel cogliere tanta determinazione da parte di Berlinguer, ma dall’interno del partito stesso, in particolare da quegli esponenti di spicco come Giorgio Napolitano, il quale non ne condivise lo spirito e gran parte del suo contenuto.     Con non poco coraggio Berlinguer in quelle dichiarazioni spiegava che  “Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.»   E continuava, precisando che “ In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca..”   . Ed esplicitava cosa intendesse  perseguire  il PCI attraverso  la tanta contestata “diversità” del partito.  “Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni.. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?” Napolitano non renderà nota subito la sua posizione di contrarietà preferendo affidarsi dapprima a una confidenza con il dirigente comunista Gerardo Chiaromonte, al quale, come riportano le sue memorie, dice “Eravamo entrambi sbigottiti – ricorda Napolitano – perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli altri partiti, ridotti a ‘macchine di potere e di clientela’, esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci”. Napolitano decide di dare una risposta pubblica a Berlinguer, ma solamente un mese più tardi, in occasione dell’anniversario della morte di Togliatti, attraverso le colonne de “l’Unità” richiamando una lezione politica del “Migliore” allorquando vi fu a cavallo degli anni cinquanta-sessanta la genesi del primo governo di centro-sinistra “’Saper scendere e muoversi sul terreno riformistico’ anziché pretendere di combattere il riformismo con ‘pure contrapposizioni verbali’ o ‘vuote invettive’”. Francamente, alla luce della Storia sembrò una forzatura comparare il progetto  moroteo delle “convergenze parallele” che condusse nell’area di governo il PSI di Nenni, che nelle pieghe di non poche contraddizioni innervava comunque un orizzonte politico di ampio respiro, con il perimetro ideale e programmatico molto più modesto e discutibile del centro – sinistra impiantato dalla DC neo dorotea e dal PSI di Craxi, che di riformismo onestamente aveva ben poco. Sono i governi, tanto per dirne una, che nasconderanno al Paese la scoperta della loggia eversiva “P2” di Licio Gelli. La chiave interpretativa di Napolitano affonda le radici in un sincero sentimento riconciliativo nazionale teorizzando che l’innalzamento dell’asticella della sfida per le riforme istituzionali e del sistema politico dovesse avvenire non attraverso una conflittualità ma una congiunzione con  la controparte in causa. In sostanza per il nuovo leader della componente “amendoliana” del PCI era sufficiente propinare un modello di relazioni declinate in ambito istituzionale perchè la controparte fosse corrispondente . A dire il vero già la drammatica e controversa esperienza della “solidarietà nazionale” aveva inficiato questo intento che sarà riproposto e smentito durante gli anni berlusconiani da un Napolitano, nel frattempo  cresciuto nel suo peso politico, che vedrà infrangersi il giusto perseguimento di un nuovo patto costituzionale con un personale politico che non solo non riconosce il “25 aprile” ma  che mette sul piatto della bilancia delle riforme le contropartite del conflitto d’interessi e  della riforma filo governativa della giustizia. Berlinguer, probabilmente anche con qualche elemento di cocciutaggine intellettuale,  era convinto, in modo straordinariamente lungimirante –  lo spiega lucidamente sempre nella citata intervista a Scalfari – che il processo riformatore del Paese, a cui credeva sinceramente, non potesse avvenire in simili condizioni in quanto non ci sarebbe stato alcun supporto popolare da parte dei cittadini, i quali, anzi, sarebbero diventati i principali antagonisti del sistema dei partiti e per questo fisiologicamente votati a una torsione culturale  protesa verso l’ autoritarismo o quantomeno alla personalizzazione della politica. Quindi più che una “questione morale” Berlinguer pone un problema inedito per una futura “ questione democratica” per il Paese la quale come nella ballata di Roberto Vecchioni “Samarcanda” si presenterà nel 1994 per chiedere il conto inevaso. Forse non è ancora chiaro che qui non è sorta nessuna Seconda Repubblica in quanto il regime istituzionale parlamentare è rimasto inalterato, ma è iniziata una seconda fase della Prima, quella che ha azzerato, alla luce della caduta del Muro di Berlino, il patto nazionale  antifascista e costituzionale e ha consentito, per via del rimescolamento post partitocratico,  l’inizio di una rivincita dei “vinti” ,  che non sono tanto i nostalgici del ventennio ma gli interpreti in chiave moderna di  disvalori storici e  nuovi che perseguono carsicamente un modello costituzionale fondato su un superamento materiale della Carta fondamentale del 1948. La Destra in Italia non ha mai cercato la democrazia dell’alternanza ma l’alternanza della democrazia.  In questi decenni ho potuto leggere diverse pubblicazioni di studiosi e  anche di esponenti della sinistra post comunista, come Piero Fassino, Claudia Mancina, Francesco Piccolo, Ezio Mauro, solo per citarne alcuni. Essi hanno come  denominatore comune quello di attribuire alla strategia berlingueriana una sorta di spoliticizzazione che rifugge nel vulnus della morale pubblica per surrogare  questo vuoto di  elaborazione e di prospettiva. Io credo, invece, che questa impostazione sia un  errore di valutazione storica oltre che politica in quanto affrontando il tema della questione morale con una sorta di impronta ideologica pregiudiziale non si percepisce che per Enrico Berlinguer l’etica pubblica non era da ascrivere alla sfera del moralismo ma a quella squisitamente politica  in quanto fondamento di legittimazione democratica del potere istituzionale. Altro che fuga dalla politica: la questione morale,  è uno degli elementi costituenti di una certa idea della democrazia di un Paese. Berlinguer aveva intuito che la partitocrazia avrebbe condotto a un  rischio concreto di una definitiva separazione tra “masse e potere”, per dirla con il titolo di un famoso saggio di Pietro Ingrao, per cui non propinava all’opinione pubblica italiana la diversità immacolata dei comunisti, come anche in questo caso la vulgata ha voluto intendere, ma chiedeva che i partiti fossero profondamente rinnovati, a partire dal suo, in quanto i cittadini dovevano essere responsabili delle azioni dei governanti/politici eletti o nominati e non loro avversari. Un’azione di governance militante da svolgere attraverso l’impegno di incidenti  organizzazioni di massa e non a titolo individuale in un  fuorviante rapporto  plebiscitario riconducibile a una indefinita democrazia diretta. Non a caso per il Segretario del PCI la fuoriuscita da quel “pantano immondo” non doveva essere quella giudiziaria, perché quella avrebbe portato a destra il Paese,  ma politica, attraverso uno sbocco elettorale conseguente. Ecco perché ci si chiede: se Berlinguer fosse stato arci convinto della supposta superiorità e autosufficienza del suo partito come mai in quegli stessi anni egli cerca di individuare nuovi riferimenti  valoriali  e nuove soggettività sociali,  che arricchiscano   nel profondo il profilo  culturale  e ideale del PCI a partire dalla riscrittura del rapporto con i giovani, le donne, il mondo pacifista ed ecologista, il Mezzogiorno?  E proprio  quest’ultima frontiera di battaglia di civiltà, che  segna il forte  sostegno alla lotta alle mafie che  stanno letteralmente divorando il tessuto civile ed economico delle regioni meridionali . L’invio di Pio La Torre in Sicilia per  ricoprire la delicata carica di Segretario regionale sta lì  a dimostrare come la questione morale fosse effettivamente una questione politica perché l’ideatore della prima legge organica antimafia non aveva solo tale gravoso compito ma anche quello di costruire un nuovo percorso che facesse uscire il partito dalle troppe secche consociative in cui si era cacciato come denunciato qualche anno prima anche  dal coraggioso Peppino Impastato. Tra le righe del suo pensiero, aiutati anche dalla luce degli eventi che sono susseguiti in questo Paese, si può scorgere anche la premonizione di una sorta di mutazione genetica della figura del politico che anche una certa intellettualità progressista desidera che si collochi in piena autonomia rispetto al contesto partitico e proclami una totale indipendenza nella sua sfera di esercizio. E’ la quinta essenza malcelata della cultura del  decisionismo che oggi conosciamo nella versione attualizzata del governismo nelle più  disparate  sedi istituzionali ai diversi livelli, che ha tradotto un oggettivo limite funzionale del modello della rappresentanza nel modo più deleterio immaginabile sotto l’aspetto squisitamente governativo a partire dai territori dove non esistono più reali consessi civici a democrazia compiuta, regole di controllo, processi democratici decisionali rispettosi delle istanze delle popolazioni locali. Probabilmente alla strategia berlingueriana mancò una certa attenzione per formulare una concreta proposta di   Riforma dello Stato, cosa su cui pose, invece,  meritoriamente l’attenzione Pietro Ingrao. A differenza di quaranta anni fa quando le correnti e i partiti governavano o condizionavano in buona parte  l’economia, oggi assistiamo al prevalere a livello nazionale dell’impresa, intesa nella sua accezione di soggetto di intraprendenza,  che si fa politica fino ai piccoli borghi dove la nuova cellula organizzativa del consenso, scomparse le sezioni di partito,   è la dinamica economica  territoriale o  la famiglia locale. Purtroppo l’inascoltato Berlinguer non ha vinto ma si sono di certo affermate le sue idee come patrimonio di un comune sentire civile. Mai come in questo caso, quindi, il recupero di un’esperienza storica ci restituisce un pensiero valido in tutta la sua attualità.



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