Come difendersi da chi fa la vittima senza sentirsi in colpa

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di Giorgia Martino

«Il senso di colpa è come un sacco pieno di mattoni: non devi fare altro che scaricarlo» asseriva Al Pacino nel celebre film L’Avvocato del Diavolo. Senza arrivare a tale estremizzazione, di sicuro il senso di colpa ha una sua utilità personale e sociale: una buona coscienza ci pone dei limiti sani per evitare di ferire gli altri e di schiacciare l’altrui dignità, per capire i nostri errori e per non compromettere i nostri rapporti.

Tuttavia, se il senso di colpa diventa eccessivo, è altamente disfunzionale, e rischia di diventare autodistruttivo, perché può far cadere nella tela dei vittimisti, ossia quei manipolatori emotivi che utilizzano abitualmente i ricatti morali per ottenere ciò che vogliono.

Il vittimista fa molto male a chi lo circonda, manovrandolo tramite subdole pressioni psicologiche, che su alcune personalità particolarmente empatiche attecchiscono perfettamente e drammaticamente.

Differenza tra vittima e vittimista

Quando parliamo di vittimista non intendiamo certo chi si trova nella situazione di essere davvero una vittima, ossia di subire una situazione spiacevole, che sia familiare, lavorativa o relazionale. In genere una vera vittima non ha atteggiamenti di autocommiserazione, o perché non si rende conto degli abusi subiti o perché, al contrario, lotta per superare la sua condizione, abbandonando una relazione distruttiva o protestando contro eventuali mancanze di rispetto.

Il vittimista, al contrario, si piange continuamente addosso davanti al mondo, anche quando tutto gli va a gonfie vele: questo avviene con frasi, atteggiamenti, sguardi e battute che hanno come obiettivo l’attirare su di sé l’attenzione, per provocare negli altri pietà, sensi di colpa, premure che vanno anche oltre il dovuto. Quale modo più subdolo per ottenere ciò che si desidera? Ovviamente non tutti cadono nel tranello del lamentoso cronico: per questo occorre capire quali sono i punti chiave delle personalità in gioco.

Vittimista e soggetto empatico

Abbiamo chiesto alla dott.ssa Maria Luisa Gargiulo, psicologa psicoterapeuta a Roma, di definire il vittimista. «Il vittimista è colui che scarica sull’altro la responsabilità del proprio malessere, dei propri problemi e dei propri disagi. Facendo sentire in colpa l’altro, lo può controllare, mettendolo in una posizione di subordinazione: chi si sente in colpa, infatti, vuole riparare e diventa disponibile a tutto».

La nostra esperta, però, ci esorta a non demonizzare anche situazioni di normalità. «Il vittimismo non è patologico in sé, se non è teso a manipolare l’altro. In molti casi si è davvero vittime di un comportamento sbagliato altrui, e protestare è assolutamente sano. È l’intento manipolatorio, invece, a essere morboso – specifica la Gargiulo – Il vittimismo patologico può essere un elemento comune a vari disturbi personalità, come alcune forme di narcisismo, di disturbo dipendente di personalità e di soggetti borderline».

I modelli educativi del vittimista

Ma qual è stato il percorso di sviluppo che ha portato il vittimista ad acquisire questo comportamento manipolatorio? «Principalmente sono due i modelli educativi imputati: in un caso, il vittimista da bambino può essere stato totalmente deresponsabilizzato, per cui da adulto fatica ad accettare che eventuali conseguenze negative in una relazione possano essere state provocate da lui; in un secondo caso, invece, il vittimista può essere stato a sua volta figlio di vittimisti, per cui ha semplicemente imparato un meccanismo di manipolazione, usandolo a suo favore».

Chi è la vittima del vittimista

Gioco di parole a parte, esistono delle personalità più fragili in cui il senso di colpa mette radici e prospera. «Si tratta di persone che si sentono a posto con se stesse solo quando cedono all’impulso di salvare gli altri, accudire, riparare, a causa di un atavico senso di colpa che viene avvertito come intollerabile e viscerale» spiega la dottoressa Gargiulo – La persona troppo disponibile con il vittimista, in genere, da bambina è stata responsabilizzata troppo presto e, invece di essere accudita dai suoi genitori, può essersi trovata nella condizione di doverli accudire: in psicologia si chiama “attaccamento controllante-accudente” alle figure di riferimento».

Si tratta di un gioco perverso, in cui i ruoli sono inconsapevolmente scelti per la funzionalità che hanno: nel vittimista soddisfano la pretesa che la ragione di ogni suo male sia nell’altro; nell’interlocutore empatico, invece, alimentano l’idea di poter acquisire importanza soddisfacendo i sentimenti del partner esigente, salvandolo dai suoi tormenti e quindi confermando a se stesso di essere insostituibile e meritevole d’amore, come forse non si è mai sentito. Peccato che, per il ricattatore morale, nessun gesto sarà mai abbastanza, risucchiando come un vampiro l’energia di chi lo circonda.

Per quanto ogni disturbo di personalità si trascini dietro delle storie dolorose, non è assecondando il lamentoso cronico che si risolve il suo problema: in questo modo si rischia solo di immolarsi inutilmente a un senso di colpa continuo e ingiusto, rovinandosi la vita. Ma come reagire a tutto questo?

Come difendersi dal vittimista

Chi riconosce questi comportamenti fugge a gambe levate o, quantomeno, pone una precisa linea di confine per proteggere il proprio spazio personale: quest’ultima strategia riguarda quei casi in cui non sia possibile recidere le relazioni, ossia quando il vittimista è un genitore, un parente stretto o un collega di lavoro.

Ma non tutti sono così fermi, anche perché, in alcune personalità, avvertire il senso di colpa è familiare, ossia viene riconosciuto come un dolore che, seppur deleterio, si riesce a gestire perché è stato ampiamente vissuto durante l’infanzia con le figure di riferimento.

Per questo, per la dottoressa Gargiulo, elemento fondamentale per difendersi da queste relazioni insane è lavorare su se stessi:«Bisogna aumentare la propria consapevolezza relazionale e fidarsi del proprio sentire, non mettendo mai in dubbio il proprio malessere: se ci si ritrova in dinamiche relazionali che si ripetono e che ci fanno sentire costantemente sbagliati, arrabbiati e quasi in dovere di chiedere perennemente scusa anche quando non dovremmo, deve scattare l’allarme che stiamo vivendo uno schema relazionale tossico».

Ascoltare di più i segnali del proprio corpo, della propria ansia, del proprio disagio, dunque, è una sana autodifesa contro la manipolazione altrui. A questo dialogo positivo con i propri reali bisogni, però, molti arrivano solo dopo un lungo percorso di sofferenza e relazioni sbagliate, e magari un percorso psicoterapeutico che insegni a gestire meglio i propri punti deboli.

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