Come riconciliarsi con il passato e con la propria famiglia

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La vita è una continua scossa, lo stiamo vedendo ora alle prese con un “imprevisto” di proporzioni ciclopiche, il Covid-19, ma le fondamenta di ciascuno di noi rimangono ancorate alla nostra storia familiare.

Anche se stiamo all’altro capo del mondo, basta poco, un sms, una telefonata, una foto, perché quel certo “clan“ che abbiamo in testa riattivi il legame o, al contrario, rabbia, rancore, ostilità, dispiacere, come se fossimo ancora lì, in casa con i nostri parenti.

«Sensazioni invadenti, che ci disturbano, perché, volenti o nolenti, l’eredità psicologica che la famiglia ci ha lasciato è sempre dentro di noi», dice Cristina Rubano, psicologa e psicoterapeuta (cristinarubano.it), che al tema dell’importanza di riconciliarsi con le proprie radici familiari ha dedicato un recente seminario.

Tra illusione e realtà

Il condizionamento della mitologia che impazza nella società, nella pubblicità e in certi film, nel caso della famiglia è forte e ha una coda fuorviante.

«Ci confrontiamo di continuo con la proverbiale famiglia del Mulino Bianco: padre, madre, figli, nonni e zii, sempre tutti sorridenti, senza problemi e in grande armonia», riprende la psicoterapeuta.

«Qui, in questo luogo fiabesco, ciascuno gioca la sua parte in modo definito e precostituito. L’icona è irreale, ma ci autorizza a pensare di poter godere di una felicità facile, immediata e immutabile. Così, la mente umana si crea delle aspettative illusorie».

E, oggi più che mai, le rincorriamo. Viviamo in un mondo globalizzato, che però pone l’accento sull’individualismo, dove ognuno ha quasi l’obbligo di realizzarsi e trovare se stesso. In questa convinzione, la famiglia diventa ancora più determinante e necessaria, una specie di volano per soddisfare aspirazioni e ambizioni personali. Se non avviene, iniziamo a puntare il dito contro congiunti distratti, freddi, egoisti, poco comprensivi. Colpevoli, in una parola.

«Rimaniamo intrappolati in una dimensione infantile. Tali e quali ai bambini che, per crescere, hanno bisogno di vedere i genitori come modelli omniscienti, positivi e perfetti», spiega Cristina Rubano. «Ma le cose non stanno così, e lo vediamo strada facendo: i familiari non sono Superman, ma persone con caratteri e modi d’agire unici. Se non riusciamo a fare questo salto d’interpretazione, saremo condizionati a vita dall’immagine di genitori senza pecche, fratelli o sorelle uguali a noi, nonni da favola. E da tutti ci attenderemo risposte positive incondizionate e uguali nel tempo».

È uno spazio fluido di persone e situazioni

La tribù familiare, invece, va guardata con gli occhi delle differenze. Perché non è un cammeo fisso e immutabile negli anni, un presepe fatto di belle statuine.

«Anzi, è lo spazio dei continui mutamenti e delle diversità», spiega l’esperta. «Di ruolo: i genitori e figli fanno mestieri diversi e ciascuno a suo modo, per personalità ed esperienza; di generazione: ognuno ha idee, vedute e opinioni a seconda del tempo in cui è cresciuto; d’età: gli adulti invecchiano, i ragazzi crescono; di vincoli esterni, come l’attuale pandemia, che obbligano le famiglie a riorganizzarsi. Insomma, la famiglia “sana” è un sistema che deve avere dei confini sufficientemente permeabili agli eventi interni ed esterni, per permettere a ciascuno di potersi adattare, e crescere. Anche attraverso litigi, confronti tempestosi, se serve. Da qui si parte per riappropriarsi delle proprie radici. Dalla capacità, cioè, di cogliere il dinamismo familiare».

Quella memoria che ci orienta

«Andiamo oltre, però, al concetto di fare pace con l’uno o l’altro», premette la dottoressa Rubano. «Può anche non succedere. Alcuni rapporti sono troppo lacerati per essere ricuciti, per esempio. Oppure, qualcuno non c’è più o ancora le relazioni appaiono buone, sembrano non avere bisogno di revisioni. Riappropriarsi della nostra storia familiare è un concetto più introspettivo: equivale ad affrontare il sospeso emotivo che ci portiamo dentro».

È con questa memoria di nodi irrisolti, equivoci e dolori (al netto, dei momenti belli, si spera) che dobbiamo fare i conti, parenti assenti o presenti che siano.

«Altrimenti, rischiamo che il vissuto ci spinga in due direzioni diametralmente opposte, ma che sono il rovescio della stessa medaglia», commenta l’esperta. «O costringendoci a ripetere il copione della nostra famiglia, che magari ci sta stretto o non fa per noi. Oppure spingendoci a cambiare aria, rinnegando luoghi, stili o atteggiamenti che somigliano a quelli del nostro passato. Ma non è detto che questo sia un passo calibrato, spesso è fatto solo a priori, per partito preso. E, allora, ci obbliga a rinunciare a una parte di noi e anche a qualche beneficio che non abbiamo voluto vedere. In entrambi i casi, comunque, non siamo liberi di scegliere: il bisogno di aderire o di strappare allo schema di casa la fa da padrone e impedisce di chiederci cosa veramente vogliamo».

Il tempo dà consapevolezza

«Con le distorsioni che comporta, conviene fare ordine nella lettura delle nostre origini, per vedere se fra ricordi lontani, sensazioni sfumate e flash d’immagini sbiadite, ce ne sono alcune da “seppellire”, altre da valorizzare nel presente», suggerisce Rubano. «E, nella revisione, solo un atteggiamento da adulti ci può venire in aiuto».

Essere maturi ci fa vedere i familiari come delle persone, esattamente come noi, con pregi e difetti, risorse e limiti, e ci spinge a tollerare errori e debolezze. Anche il tempo che scandisce le fasi dell’esistenza ci arricchisce di consapevolezze diverse: per esempio, torniamo a ripensare al trascorso familiare quando diventiamo genitori a nostra volta e questo, più o meno consciamente, ci permette di riconfrontarci con l’educazione ricevuta.

Succede lo stesso quando i nostri figli sono adolescenti, quando i genitori invecchiano. È un confronto che portiamo avanti per tutta la vita, e più camminiamo in questa direzione, più punti diversi avremo sul passato, a vantaggio di un inquadramento realistico.

«Ci arriviamo, solo se diventiamo noi l’adulto di cui abbiamo bisogno per curare le nostre ferite e i nostri bisogni emotivi», conclude l’esperta. «Senza ricercare che qualcun’altro lo faccia al posto nostro, come da piccoli. Senza serbare rancore o esigere un credito nei confronti di chi non lo ha fatto quando noi eravamo bambini».

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Articolo pubblicato sul n. 17 di Starbene, in edicola e nella app dal 21 aprile 2020




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