È come entrare in un buco nero. A un certo punto il mondo esterno non esiste più: ci sei solo tu e il cibo. Vedi il tuo braccio muoversi meccanicamente sul piatto, la tua bocca diventa un rullo compressore, la mandibola si apre e chiude con la stessa rapidità delle fauci di uno squalo, il tuo stomaco si dilata e più ti gonfi, più ti abbuffi. È il disturbo da alimentazione incontrollata, una sindrome in grande crescita caratterizzata dalla perdita di controllo nella relazione con il cibo. È un fenomeno estremamente doloroso per chi ne soffre perché si ha la sensazione di essere completamente in balia di quello che abbiamo nel piatto, ci spiega Sara Bertelli, direttrice del centro Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione all’Ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano.
Le ragazze ne sono maggiormente colpite?
A differenza dell’anoressia, dove il genere femminile è preponderante e l’ipercontrollo è l’elemento gratificante, e della bulimia, dove chi si abbuffa (anche qui più spesso donne) poi adotta strategie compensative come il vomito autoindotto o il massiccio utilizzo di lassativi e diuretici abbinati a sessioni sportive no limits, il Binge Eating Disorder, caratterizzato dalla perdita di controllo relativa al cibo, non fa preferenze di genere o di età e non mette in atto alcun meccanismo di compensazione. Ne soffrono uomini e donne allo stesso modo e, spesso, è un disturbo che si manifesta avanti con gli anni.
Quali sono le conseguenze di questa mancata regolazione alimentare?
Oltre ovviamente all’aumento di peso, il sentirsi completamente preda di una pulsione ingenera paura, senso di impotenza, frustrazione. A questo si aggiunge il fatto che, al contrario dei bulimici che si “svuotano” dopo un’abbuffata, i mangiatori compulsivi stanno male anche fisicamente: gonfi, pieni, satolli, si sentono esplodere. E da qui poi arriva una cascata di emozioni negative: la vergogna, il senso di colpa, il disprezzo verso se stessi e una grande sensazione di inadeguatezza verso il mondo che li circonda. Il Binge Eater si disprezza nel non sapersi imporre uno stop, e questa pulsione reiterata ingenera un grande senso di indegnità.
Si mangia tanto perché si sta male o si sta male perché si mangia?
In questo disturbo il cibo funziona come regolatore emotivo. Se mi sento sola, o triste, o mi sta salendo l’ansia o ancora mi annoio, aprire il frigorifero o la dispensa e divorare quello che capita a tiro diventa una grande consolazione. Quando si comincia, due pacchetti di patatine e un bicchiere di vino possono essere sufficienti per sentirsi meglio. Poi facilmente quei due snack diventano dieci, si inizia a saltare i pasti regolari pensando in questo modo di tenere a bada le calorie introiettate con la scorpacciata precedente e questa discontinuità fa impazzire l’ago della bilancia. Lo step successivo è che, una volta ingrassati, si inizia a isolarsi.
L’abbuffata è un rito che si compie in solitudine, consapevoli del fatto che si sta compiendo un atto autolesionistico, di nascosto dal partner o dalla famiglia. Lo stigma della “cicciona”, messo in atto dalla società dell’immagine in cui viviamo, rinforza quel comportamento autolesivo e recide i legami sociali esistenti. Così, al sottofondo depressivo spesso presente in questo disturbo si associa un isolamento coatto che amplifica il malessere.
Come ci si cura?
Il primo step è rivolgersi a dei professionisti. In generale la strategia più efficace è un approccio multidisciplinare dove uno psicoterapeuta e un nutrizionista elaborano un percorso condiviso in cui il primo obiettivo non è la perdita di peso, ma la stabilità emotiva del paziente.
Si possono utilizzare dei farmaci?
Spesso gli psicoterapeuti utilizzano gli SSRI, farmaci serotoninergici (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). In pratica si tratta di una terapia che inibisce il riassorbimento della serotonina, l’ormone del buonumore, in modo da favorire la regolazione emotiva e prevenire gli attacchi d’ansia e di fame. La letteratura recente sta dimostrando che questi farmaci sono molto utili nel Binge Eating Disorder perché funzionano come blocca-fame. Poi si procede con un lavoro di accettazione sul corpo: chi ingrassa troppo smette di vedersi, come a voler tenere nella mente l’immagine di sé precedente all’aumento ponderale. Non ci si specchia più, si indossano solo indumenti larghi e si finge di ignorare il proprio aspetto esteriore. La psicoterapia aiuta a tornare a guardarsi senza filtri, che è una grande prova d’amore verso se stessi.
E il ruolo del nutrizionista?
Insieme allo psicoterapeuta, l’esperto in scienza dell’alimentazione, il dietologo o il nutrizionista lavora per impostare un regime alimentare corretto. Oltre a consigliare il classico 3+2 (i pasti principali più gli spuntini), l’esperto mira a ricostruire un rapporto sano con il cibo. L’ingozzarsi non ha nulla a che fare con la palatabilità: la gradevolezza del gusto è completamente esclusa nel processo vorace dell’abbuffata. Anche la convivialità è bandita perché l’azione compulsiva predomina sulla condivisione di una leccornia in compagnia. Il nutrizionista dovrà lavorare sulla riacquisizione di consapevolezza degli alimenti sostituendo al binomio cibo-dolore quello del cibo-piacere. Mangiare deve tornare a essere un’attività naturale e piacevole, non una coazione a ripetere distruttiva.
Come devono comportarsi i familiari?
L’atteggiamento tipico dei parenti o dei partner in caso di Bed è spesso svalutativo. La lente dell’intimità spesso non aiuta: il soggetto colpito non ha abbastanza forza di volontà per imporsi sulla pulsione nella vulgata comune. “Cosa ti costa fare un piccolo sforzo?” “Ma allora cosa ti serve andare dal nutrizionista e dallo psicologo?” “Perché non riesci a prenderti cura di te stessa? “Com’è possibile che tu non sia capace di amarti?” Queste sono solo alcune delle frasi più comuni che un Binge Eater si sente rivolgere da chi gli sta vicino.
E quando lo si sorprende nel pieno della notte con le mani nel sacco, si parte con la colpevolizzazione, se non addirittura con il disprezzo. Invece di essere giudicanti, di fronte a un attacco di fame di un convivente è meglio mostrare un’affettuosa accettazione, rimandando il dialogo a posteriori. Un abbraccio vale più di mille consigli. Si può dire anche una parola di conforto, raccomandandosi di parlarne in un altro momento. Il ruolo dei familiari è fondamentale nell’aiutare i binge eater a capire che è arrivato il momento di farsi aiutare.
Dove chiedere aiuto
1. Se pensi di soffrire del disturbo da alimentazione incontrollata, puoi rivolgerti al coordinamento nazionale disturbi alimentari (coordinamentonazionaledca.it): opera in 10 regioni e comprende 19 associazioni. Il suo obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza delle problematiche relative ai DCA (disturbi del comportamento alimentare) e favorire la creazione di gruppi di mutuo-auto-aiuto e percorsi psico-educativi per chi ha un rapporto problematico con il cibo e per i familiari.
2. In Lombardia l’Associazione no profit Nutrimente (nurimente.org), costituita da un pool di psicoterapeuti, pediatri, internisti e dietisti specializzati nei disturbi alimentari, organizza numerose attività didattiche nelle scuole e offre una serie di iniziative sul territorio. «Lavoriamo molto sulla prevenzione», spiega Sara Novero, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale e presidente dell’Associazione.
«E organizziamo una serie di attività, come il gruppo psicoeducativo alimentare; ci occupiamo anche dei genitori (molti arrivano da altre regioni) insegnando loro a comunicare in modo corretto con i propri figli. Abbiamo creato anche dei laboratori ad hoc, come Senza Dieta, un gruppo che lavora sui pensieri disfunzionali legati all’alimentazione. Qui e Ora utilizza la tecnica della Mindfulness Eating per imparare a mangiare con consapevolezza, mentre un workshop dedicato ai valori nutrizionali insegna a mangiare in modo corretto», conclude l’esperta.
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