di Laura Della Pasqua
1. La risposta immunitaria dopo il vaccino può dipendere dal sesso e dallo stile di vita?
2. A che punto sono i vaccini contro le varianti?
3. Perché il presidente Usa Biden è positivo dopo la cura con gli antivirali?
1. La risposta immunitaria dopo il vaccino può dipendere dal sesso e dallo stile di vita?
Donne e single sono più protette dal Covid. La risposta immunitaria che si acquisisce dopo la vaccinazione non dipende solo dall’età e dalle condizioni di salute ma anche dal sesso, dallo stile di vita e perfino dallo stato civile. Lo dice uno studio pubblicato su Journal of Personalized Medicine, realizzato da un team di ricercatori italiani e promosso dalla Sapienza e dal Policlinico Umberto I di Roma.
È stata osservata la risposta anticorpale di 2.065 operatori sanitari del Policlinico Umberto I a cui era stato somministrato il vaccino Pfizer. A questo campione è stato prelevato il sangue dopo 1 mese e dopo 5 mesi dalla seconda vaccinazione. È emerso che a 1 mese i soggetti con una pregressa infezione da Covid-19 e quelli più giovani avevano livelli di anticorpi più alti; al contrario coloro che avevano malattie autoimmuni, patologie polmonari croniche e tabagismo, li avevano più bassi. Dopo 5 mesi dalla vaccinazione, c’è stata una diminuzione in media del 72% ma meno evidente nelle donne e nei soggetti con infezione pregressa. Nei fumatori, negli ipertesi e nei meno giovani si è riscontrato un crollo di circa l’82%. I ricercatori hanno osservato che nei single o conviventi, la risposta anticorpale si manteneva di più rispetto ai soggetti sposati, divorziati o vedovi. “Questa associazione – hanno spiegato – potrebbe essere dovuta ad altre variabili cliniche inesplorate, come lo stile alimentare. I fattori legati agli stili di vita, infatti, hanno un ruolo rilevante nella risposta immunitaria”.
2. A che punto sono i vaccini contro le varianti?
In autunno con quali vaccini faremo la quarta dose? Al momento il richiamo vaccinale destinato soprattutto agli anziani e alle persone fragili e immunodepresse, viene effettuato con i prodotti tradizionali già sperimentati ma si tratta di un’arma che, pur rinforzando le difese immunitarie, non impedisce il contagio dalle varianti. La ricerca di prodotti aggiornati in grado di fornire una protezione contro tutti i Coronavirus procede con lentezza ed è molto probabile che non arrivino in tempo per l’autunno. C’è il rischio di creare un vaccino modulato sulle varianti già in circolazione ma che risulterebbe vecchio rispetto ad altre modifiche del virus. La comunità scientifica quindi si sta domandando se vale la pena di impiegare risorse per un prodotto che risulterebbe quasi pari a quelli già in circolazione. L’aggiornamento proteggerebbe dalla malattia grave ma non dal contagio. La ricerca è ancora indietro nella preparazione dei vaccini universali, i cosiddetti pan-coronavirus, validi contro tutti i tipi di coronavirus, e di quelli nasali, che creando una barriera nasale, sarebbero in grado di bloccare la trasmissione del Covid. Un ostacolo agli studi è anche nell’ampia immunizzazione della popolazione mondiale raggiunta con la vaccinazione e il contagio o entrambi. Mancano quindi i soggetti “vergini” sui quali testare l’efficacia di nuovi prodotti come fu all’inizio della pandemia.
Da un vertice alla Casa Bianca nel quale sono stati riuniti scienziati, dirigenti farmaceutici ed esperti di salute pubblica, proprio per discutere del futuro di nuovi vaccini, non è emersa alcuna indicazione, né una richiesta di finanziamento né un piano concreto. Secondo il virologo Florian Krammer, della Icahn School of Medicine del Monte Sinai, “si è perso il senso di urgenza”.
3. Perché il presidente Usa Biden è positivo dopo la cura con gli antivirali?
Il presidente americano Joe Biden, contagiato dal Covid, è stato trattato con l’antivirale Paxlovid e si pensava che fosse guarito perché il test era risultato negativo. Dopo alcuni giorni, però, effettuando un altro tampone è emerso che il virus era ancora presente ed è stato costretto a una nuova quarantena.
Il fenomeno è chiamato “rebound”, o rimbalzo, e si verifica tra due e dieci giorni dalla fine della cura. Spesso chi ne è colpito non se ne accorge nemmeno perché non ci sono sintomi o sono comunque molto lievi. Gli scienziati si stanno ponendo il tema se allungare il periodo di somministrazione del farmaco oltre 5 giorni previsti. Il coordinatore per la risposta al Covid negli Stati Uniti, Ashish Jha, ha spiegato che il rebound si verifica per il 5 e l’8% dei pazienti trattati con Paxlovid. Siccome nella maggior parte dei casi non ci sono disturbi, il malato pensa di essere completamente guarito e non si sottopone a un tampone. Può accadere però che il virus torni a manifestarsi in modo significativo, come è accaduto a giugno scorso, all’immunologo Anthony Fauci, trattato ugualmente con Paxlovid ma che a pochi giorni dalla negativizzazione, ha lamentato la presenza del Covid, con sintomi più marcati rispetto alla prima infezione. In Italia gli antivirali sono poco usati, pur essendo arrivati a gennaio. Finora sono stati impiegati su 79mila contagiati.