Covid: topi positivi a New York, l’infezione fa invecchiare prima, Molnupiravir non riduce la mortalità

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di Laura Della Pasqua

1. Milioni di topi positivi a New York

2. Con l’infezione invecchiamento precoce

3. L’antivirale Molnupiravir non riduce la mortalità

microscopio, provette, laboratorio, ricerca

1. Milioni di topi positivi a New York

I topi potrebbero causare un’altra epidemia. È noto che le metropoli sono abitate da colonie di ratti resistenti a qualsiasi campagna di disinfestazione e a New York questo problema è sentito in modo particolarmente pressante. Un studio pubblicato sulla rivista mBio, sostiene che i milioni di topi che popolano le strade della Grande Mela potrebbero rappresentare una minaccia, in quanto veicolo del Covid.

Il passaggio del virus dagli animali all’uomo non è mai stato verificato, anzi ultimamente si è affermata la tesi che la pandemia sarebbe stata originata da un incidente nel laboratorio cinese di Whuan. La ricerca di cui parla la rivista mBio riporta che i roditori sono molto sensibili al virus e a tutte le sue varianti. Il team dietro lo studio ha esaminato 79 ratti nell’autunno del 2021, trovati principalmente nei parchi di Brooklyn, e tredici di loro (16,5%) avevano anticorpi che dimostravano un’infezione da Covid: in 9 di essi si trattava di un contagio passato, mentre in 4 era ancora in corso. I test molecolari eseguiti su questi ultimi hanno mostrato che a causare l’infezione era un ceppo di virus che era diffuso in Usa circa un anno prima. I ratti sono risultati potenzialmente suscettibili anche alle varianti Delta e Omicron. I ricercatori temono che il virus possa circolare tra i topi e poi fare il salto di specie, diffondendosi, con altri varianti, tra gli uomini. Espandendo il tasso di positività alla popolazione di roditori di tutta New York (circa 8 milioni), si può ipotizzare che circa 1,3 milioni di topi potrebbero essere infetti. Il capo dei ricercatori però non vuole creare allarmismo e ha affermato che “è necessario un ulteriore monitoraggio del virus nelle popolazioni di ratti per determinare in che misura sta circolando e si sta evolvendo in nuovi ceppi che potrebbero rappresentare un rischio per l’uomo”.

donna matura, anziana, occhi stanchi

2. Con l’infezione invecchiamento precoce

Si parla molto del long Covid e degli strascichi anche a distanza di tempo. Secondo uno studio di alcuni scienziati italiani pubblicato sulla rivista Nature Cell Biology, il virus causerebbe danni al Dna delle cellule, rendendo impossibile la riparazione e provocando invecchiamento cellulare e infiammazioni croniche. La ricerca è stata coordinata da Fabrizio d’Adda di Fagagna, dell’Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare (Ifom) e dell’Istituto di Genetica Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Ign-Cnr), e condotta in collaborazione con il Centro Internazionale di Ingegneria genetica e Biotecnologie (Icgeb) di Trieste, San Raffaele di Milano, Università di Padova, Istituto Neurologico Besta e Università di Palermo. «Quello che abbiamo osservato è che il Covid, una volta entrato nella cellula, ne dirotta i processi fondamentali», hanno detto i primi due autori della ricerca, Ubaldo Gioia e Sara Tavella, entrambi dell’Ifom.

Il meccanismo che hanno descritto è questo: il virus costringe la cellula a bloccare la produzione di deossinucleotidi, che sono considerati un po’ i “mattoni” del Dna, per farle produrre i ribonucleotidi, utili invece a sintetizzare l’Rna della cellula e, soprattutto, quello del virus. Una conseguenza drammatica di tale sfruttamento dei meccanismi cellulari da parte del virus è la carenza di deossinucleotidi. A ciò si aggiunge il blocco della riparazione delle cellule, causato sempre dal Covid. Due processi che hanno effetti drammatici sulla cellula. «In questo modo non riesce più a replicare adeguatamente il proprio Dna e accumula danni nel proprio genoma», sottolineano i ricercatori. Uno egli effetti sulle cellule è il precoce invecchiamento, detto senescenza cellulare.

Altri scienziati stanno affrontando questo tema. Uno studio su questa problematica è stato pubblicato lo scorso ottobre sulla rivista scientifica Immunology e condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università del Queensland, che ha mostrato come il Covid non crei solo uno scompenso infiammatorio e coaugulativo, ma anche vere e proprie modifiche del DNA cellulare.

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3. L’antivirale Molnupiravir non riduce la mortalità

Dopo l’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, è arrivato lo stop dell’Aifa, l’omologa italiana. La pillola Molnupiravir non produce alcun beneficio per ridurre la mortalità e i ricoveri ospedalieri. Il farmaco, a lungo considerato un alleato contro gli effetti più gravi del Covid, è stato così fermato. “Nella seduta della Commissione tecnico scientifica (Cts) del 10 marzo 2023 – si legge nella nota pubblicata sul loro sito -, è stato deciso di sospendere l’utilizzo del medicinale antivirale Lagevrio (Molnupiravir) a seguito del parere negativo formulato dal Comitato per i medicinali a uso umano Chmp dell’Agenzia europea del farmaco Ema in data 24 febbraio 2023, per la mancata dimostrazione di un beneficio clinico in termini di riduzione della mortalità e dei ricoveri ospedalieri”. L’Aifa puntualizza che “non sono stati rilevati particolari problemi di sicurezza collegati al trattamento”. Il Molnupiravir era stato inizialmente reso disponibile – ricorda l’ente regolatorio nazionale – per il trattamento di Covid lieve-moderato, tramite autorizzazione alla distribuzione in emergenza.






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