Nella corsa per la successione di Sergio Mattarella al Quirinale, Massimo D’Alema è entrato se non come candidato come pure qualcuno ha ipotizzato, certamente come aspirante regista e comunque attore protagonista; e resterà in campo fino al 24 gennaio, quando si comincerà a votare alla Camera, ed oltre. Così facendo, però, ha scompaginato i giochi del segretario del partito nel quale vorrebbe rientrare; anzi, ha cancellato con un tratto di penna la storia del Partito democratico come si era dipanata prima e dopo l’eclissi della segreteria Zingaretti e l’avvento di Enrico Letta, richiamato a gran voce dall’esilio parigino. Che questo ribaltone politico, per ora solo prefigurato, possa essere determinato da un ex leader, protagonista di una scissione clamorosamente bocciata alle elezioni del 2018 (quando lo stesso D’Alema perse il seggio) è uno dei tanti paradossi che hanno accompagnato la storia della sinistra italiana, ancora vittima di egemonie da tempo non più giustificate dall’evoluzione dei fatti. Quando l’ex presidente del Consiglio, già primo capo di governo italiano di origine comunista, dice che “Articolo 1” si può sciogliere e rientrare nel Pd perché questo partito si è liberato di “una deriva disastrosa, una malattia che fortunatamente è guarita da sola, ma c’era”, non si limita a condannare il renzismo (che pure conquistò oltre il 40% dei voti con Renzi segretario), ma discredita i suoi successori e le loro politiche, incapaci di curare il virus contratto dal partito. E quando liquida come “non adeguata per un grande Paese democratico” la candidatura di Mario Draghi al Quirinale, demolisce d’un colpo non solo la strategia del Pd per la corsa al Colle, ma anche le decisioni che hanno portato la segreteria Letta ad entrare nel governo di unità nazionale, anzi ad esserne il più convinto sostenitore.
Il fastidio con il quale il segretario e il gruppo dirigente del Pd hanno commentato l’uscita di Massimo D’Alema nasconde a malapena l’imbarazzo e lo sconcerto prodotti nel partito e di riflesso nei gruppi parlamentari che fra due settimane saranno chiamati a dare il loro contributo – da una posizione di minoranza in Parlamento – alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Fino a ieri era sembrato che Letta fosse incline ad accogliere la implicita disponibilità alla candidatura manifestata da Draghi nella conferenza stampa di fine anno; quasi facendola propria in una linea di continuità con l’azione del governo nell’anno cruciale appena concluso. Molte considerazioni, non ultima l’opportunità di mettere al sicuro dalle insidie dei partiti l’ex Presidente della Bce collocandolo in un ruolo di assoluta garanzia istituzionale ma anche di alta rappresentanza dell’Italia nei confronti dei partner europei, fanno tuttora del premier il candidato ideale del Pd per il Quirinale; ma ora il “niet” di D’Alema potrebbe rimettere tutto in discussione. Si tratta infatti di capire fino a che punto il suo giudizio negativo sul candidato Draghi possa influenzare i grandi elettori democratici, e se la implicita delegittimazione di Enrico Letta ne possa indebolire la credibilità come regista dell’elezione. Man mano che si avvicina la fatidica data del 24 gennaio – apertura del seggio elettorale a Montecitorio – appare sempre più chiaro che la trattativa fra i partiti dovrà sciogliere il nodo del Quirinale ma anche quello del futuro Governo; a meno che non si voglia aprire una deriva che porta dritti alle elezioni in primavera. Una complicazione in più per Enrico Letta.
di Guido Bossa
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