Di Monia Gaita
Il sentimento che ci unisce tutti in queste ore è la paura.
Una paura che infetta anche se non ci ammaliamo. Una paura che ci contagia anche se non lo vogliamo.
Leggi, decreti e ordinanze si susseguono sui tavoli istituzionali, provano a traghettarci verso un unico obiettivo: salvare vite umane.
La nostra Costituzione così recita all’art.32 comma 1: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
La paura la proviamo perché la sacca di limiti del sistema sanitario è così larga e profonda che rischia di inghiottirci in parecchi, prima che il virus sfebbri e si contragga, prima che fuoriesca dalle viscere dell’aria inerpicandosi sulle pareti – speriamo definitive – dell’addio.
Per ora è tra noi, con il grilletto facile e il piacere di colpire associato alla clandestinità. Disubbidisce ai provvedimenti e alle chiusure, lasciandoci storditi e schiavi di indecifrabili timori.
Non riuscendo a mostrarci leggeri e lieti, collaudiamo pure il lockdown dell’allegria. Tanto se sorridiamo non ci vede nessuno: la faccia sequestrata dalla mascherina dopo un po’ di tempo diventa un miniforno a 60°.
Abbiamo paura. In questi rivoli di insicurezza e sospensione ci siamo visti costretti a congelare pure i sogni. Adesso stanno fermi in ascensore.
Nel mondo angosciato dall’emergenza sanitaria ed economica, l’emergenza della gioia pare certo meno allarmante e grave.
Ma incute paura anche quella. Mettono paura le famiglie in affanno, i negozi e le aziende che chiudono, i lavoratori senza lavoro, le penurie degli ospedali, parto di una Sanità depauperata.
Il buonumore dei figli, dei genitori, dei nonni, dei piccoli e dei grandi, è stato posto in quarantena. E pure questo fa paura.
La quarantena dello spirito fa paura. La quarantena dell’anima fa paura.
Scoprirsi esposti e fragili con un nitore da rivelazione, fa paura.
E fa male, fa veramente male.
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