Emotività, come affrontare i tasti dolenti e “litigare bene”

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La classica “goccia che fa traboccare il vaso” sta andando in pensione: a casa come fuori, urliamo, ci arrabbiamo, mandiamo tutti a quel paese a pie’ sospinto per una frase o un commento all’apparenza banali che però, almeno a noi, ci fanno uscire fuori dai gangheri, avvelenando giornate e relazioni.

«Il mondo è pieno di reazioni scomposte, sintomo della fragilità imperante», ci dice il pedagogista Daniele Novara, pedagogista, counselor e formatore, fondatore del CPP (Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti). «Siamo “un fascio di nervi scoperti”, sempre pronti a esplodere per un nonnulla, e a innescare conflitti inutili e deleteri, per tutti. Per questo ho scritto il libro La manutenzione dei tasti dolenti (Bur Rizzoli, 16 €): non per eliminare il disaccordo, che da sempre fa parte dell’esistenza, ma per insegnare alla gente a “litigare bene”. A quest’obiettivo, un’integrazione costruttiva fra punti di vista diversi, ci si arriva solo dopo che siamo in grado di gestire i nostri, appunto, tasti dolenti».

Perché, di questi tempi, la suscettibilità è alle stelle?

Viviamo in una società tendenzialmente narcisista in cui irritabilità e permalosità rappresentano la misura della nostra vita relazionale. Da una parte, è anche un fatto positivo, è come se ciascuno di noi cercasse uno spazio in cui esprimere la propria identità; dall’altra, il rovescio negativo è che tutti sono pronti a scaricare sugli altri le proprie tensioni, quando qualcuno si mette di traverso o non soddisfa le aspettative che avevamo in mente. È in questi frangenti che agisce il nostro tasto dolente, irrisolto: non vediamo più una certa situazione per quella che è, la viviamo solo come un attacco personale.

Il tasto dolente è così potente su di noi?

Sì, fa parte della nostra storia personale. Una specie di condensato emotivo e psichico che si struttura durante l’infanzia (dai 4-5 anni in su) per mancanze e sofferenze subite dagli adulti di riferimento (familiari, insegnanti) e che provoca un dolore permanente e continuo. Poi ricompare in età adulta sotto forma di reazione emotiva nel momento in cui si vivono episodi di opposizione, oppure una certa situazione prende una piega imprevista che non si voleva assolutamente.

Il risultato visibile?

Di fronte all’ostacolo il conflitto degenera, diventa una guerra o una violenza distruttiva, per noi e gli altri. Ci arrabbiamo, aggrediamo (o ci ritiriamo nel nostro guscio) per il desiderio, a livello di inconscio, di ottenere giustizia per la nostra sofferenza, deformando la realtà. Nascono comportamenti distorti, tanto siamo impegnati a difendere la piccola vittima di un torto che, a distanza di decenni, è ancora incistato nel profondo e continua a chiedere un risarcimento, senza fine.

Ma così la vita diventa complicata…

Eccome, se in alcune situazioni riusciamo a controllare questo ospite indesiderato dentro di noi e ad addomesticarlo, in altre prende il sopravvento e può trasformarsi in furia, refrattarietà, paura e tantissime altre modalità emotive che non consentono però di affrontare adeguatamente le relazioni con gli altri.

Qualche caso comune?

Un classico è il rapporto genitori-figli. Urliamo addosso a quel ragazzino, che si rifiuta di spegnere lo smartphone di notte, perché nel suo diniego (anche solo del cellulare) risentiamo la voce di nostro padre che non ci ascoltava mai. L’antico bambino/a trascurato può saltare fuori, con un prepotente senso di umiliazione, anche davanti al capo che non “ha tempo” per noi, in quel momento. Ancora: s’attacca il partner su tutta la linea quando non è d’accordo su una certa scelta, dal momento che il suo no ci ricorda che da piccoli i genitori ci proibivano l’una o l’altra cosa. Ma se qualsiasi persona in situazioni diverse può accendere questo click emotivo, siamo condannati a vivere qualunque conflitto, piccolo o grande che sia, in una logica puramente emotiva, sia essa la rabbia, il timore o il voler vincere a tutti i costi. Sono tutte zavorre che non fanno stare bene, danneggiano i legami e non permettono di affrontare i problemi con il piede giusto.

Come ci liberiamo dal “bambino tiranno” che spadroneggia?

Sul tasto dolente possiamo lavorare, “fare manutenzione”, nel senso di arrivare a trasformare un fantasma fastidioso con le sue necessità arcaiche in uno stimolo che ci aiuta a cambiare, crescere. Per riuscirci (o almeno tentare) dovremmo evitare di guardare ciò che ci sta succedendo da adulti con lo sguardo del passato, quello che ci impedisce di fare le mosse giuste.

Quali sono i passi da fare?

Nelle situazioni più svariate in cui si è uno contro l’altro, funziona adottare la strategia dei tre passi indietro (per liberarci di tutta una serie di abitudini che non funzionano proprio) e sette passi in avanti (le tecniche che ci consentono di affrontare bene le contrarietà). Iniziando dai comportamenti da evitare: non cercare il colpevole (no a frasi tipo “Di te non ci si può fidare”; “Hai fatto tutto da solo”; “Prenditi le tue responsabilità”); non fare commenti e non dare consigli non richiesti (“Fai questo, fai quello, fai così, fai cosà”) che impediscono il fluire comunicativo perché l’altro si sente solo giudicato. Lo scopo, infatti, non è correggere chi ci sta davanti quanto governare in modo appropriato il conflitto.

E tra i comportamenti virtuosi?

Tra i più efficaci: usare le domande dirette (“Perché sei tornato alle 2?” e non “Ti sembra giusto tornare alle 2?”) per quelle che veramente sono, uno strumento per sapere qualcosa di cui non si conosce la risposta e che permettono di aprire nuove possibilità di dialogo; chiedere il permesso (“Quando possiamo parlarne?”) prima di affrontare una situazione critica, che esige tempo e spazio adeguato; stare sul problema invece di attaccare la persona, in modo che l’interlocutore capisca che vogliamo comprendere una certa situazione; dare informazioni al posto di consigli, che sono sempre un pretesto per imporsi.

Cosa porta questo lavoro complesso?

A elogiare il bello del litigare bene. Se siamo in grado di controllarli, gli scontri sono una risorsa formativa: portano a uno scambio di punti di vista diversi, migliorano la capacità di ascolto e, quindi, nutrono la necessità di essere ascoltati. Creano un ambiente umano migliore. Un antidoto alla società narcisistica tesa solo a soddisfare i bisogni individuali.

Un lungo (e onesto) percorso di riflessione

Non è facile, comunque, riconoscere i nostri “tasti dolenti”. «Sono elusivi per natura», spiega Daniele Novara. «Si nascondono fra le pieghe dell’infanzia e riaffiorano nelle nostre emozioni adulte. Appaiono e scompaiono, sotto sembianze diverse, a seconda delle diverse fasi della vita. Per esempio, se a 30 anni emerge un senso di esclusione, a 50 questo può riapparire con la paura di essere soli. Proprio per la loro natura misteriosa e vaga, piuttosto che cercare di capirne l’origine ed esplorarne le ragioni, spesso si preferisce lasciarli in un limbo, nell’incertezza, in una presunta contingenza. In ogni caso, per riuscire a svelare i tasti dolenti occorre passare attraverso pertugi, situazioni apparentemente non collegate tra loro ma che in realtà lo sono e ci permettono di creare una connessione molto specifica. Un po’ come i sogni che ci consentono di raggiungere l’inconscio».

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