Esofagite eosinofila, cosa fare quando il boccone non va giù

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Se fai fatica a deglutire (e la cosa si ripete spesso), non trascurare il disturbo ma rivolgiti al gastroenterologo per un controllo. Potresti soffrire di esofagite eosinofila, una malattia poco nota, spesso diagnosticata con anni di ritardo. Ce ne parla una grande esperta

Hai mai sentito parlare dell’esofagite eosinofila? È una reazione immunitaria localizzata a livello dell’esofago (il tratto del tubo digerente che mette in comunicazione la faringe con lo stomaco), in risposta al contatto con alcuni allergeni presenti negli alimenti o nell’aria inalata, come i pollini.
Per fare luce su questa malattia così poco conosciuta, abbiamo intervistato la dottoressa Gaia Pellegatta, specialista in gastroenterologia ed endoscopia digestiva all’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano).

Dottoressa, qual è il campanello d’allarme della malattia?

Il sintomo caratteristico è la disfagia, cioè il difficile e rallentato transito del cibo lungo l’esofago. Si tratta di un disturbo molto fastidioso che può comportare episodi acuti di blocco del cibo nell’esofago, con necessità talvolta di andare in pronto soccorso per attuare procedure d’urgenza atte a rimuovere l’ostruzione. Oltre alla disfagia, possono essere presenti sintomi più sfumati, sovrapponibili a quelli del reflusso gastroesofageo, come sensazione di rigurgito acido, bruciore e dolore retrosternale (alla “bocca” dello stomaco) e difficoltà digestive.

Spesso questi sintomi vengono a lungo ignorati dai pazienti, che tendono ad abituarsi ad essi mettendo in atto “meccanismi di compenso” per cercare di convivere con la disfagia: masticano a lungo i bocconi, bevono molti liquidi durante i pasti e danno la preferenza ad alimenti morbidi che non rischiano di “bloccarsi” nell’esofago. Il mio consiglio, in caso di difficile transito del cibo, è non tirare avanti in qualche modo ma rivolgersi a un gastroenterologo per effettuare tutti gli esami del caso. La disfagia non è un sintomo che possa essere ignorato e bisogna effettuare dei controlli per individuarne la causa.

Quale test occorre fare?

L’esame endoscopico, che consente la visualizzazione diretta delle pareti dell’esofago e degli eventuali segni di esofagite. Infatti, nella maggior parte dei casi, si riscontra una mucosa pallida, con solchi lineari, anelli circolari, essudati bianchi e altre anomalie che differiscono dal normale aspetto di un esofago sano. Nel corso dell’esame endoscopico vengono eseguite delle biopsie, vengono cioè prelevati dei piccoli frammenti di tessuto esofageo da analizzare al microscopio: se viene riscontrata la presenza di infiltrati eosinofili, la diagnosi è certa.

Perché è importante la diagnosi precoce?

L’esofagite eosinofila nella maggior parte dei casi viene ancora oggi diagnosticata con grave ritardo: un recente studio multicentrico italiano ha dimostrato che è, mediamente, di tre anni. Per colmare questo gap occorre sensibilizzare sia l’opinione pubblica sia gli operatori sanitari su questa malattia. Solo la diagnosi precoce, e una corretta terapia, consentono infatti di evitare che i disturbi progrediscano fino a provocare una vera e propria stenosi cicatriziale dell’esofago. Ovvero un suo restringimento, che va corretto con un intervento endoscopico.

Ma se la colpa è di alcuni alimenti, non basta fare i test allergologici?

Sfortunatamente no, non è così semplice. L’esofagite eosinofila non ha nulla a che vedere con la classica reazione allergica agli alimenti, mediata dalle immunoglobuline IgE. I dati ad oggi disponibili mostrano che non esiste una correlazione precisa tra i comuni test allergologici (rast e prick test, dosaggio delle IgE totali e specifiche) e la presenza di esofagite eosinofila. Possono risultare tutti negativi ed essere comunque presente l’infiammazione cronica all’esofago. Oppure con risultato positivo a uno o più allergeni, il paziente può non trarre giovamento dalla loro eliminazione dalla dieta.

Insomma, un quadro complicato che va valutato caso per caso. Un approccio terapeutico, alternativo alla terapia farmacologica, è la cosiddetta “dieta di eliminazione empirica”, da seguire indipendentemente dall’esito degli esami allergologici. Consiste nell’evitare di mangiare i sei più comuni alimenti allergenici: uova, latte, soia, grano, frutta secca a guscio e pesce/molluschi. Nel 50% dei casi funziona: il paziente riferisce una regressione dei sintomi, legata al controllo dell’infiammazione. Nell’altra metà dei pazienti, invece, l’adozione di questa dieta non è sufficiente, perché la causa va ricercata in altri fattori come l’esposizione ad alcuni allergeni ambientali: pollini di graminacee, di ulivo, di betulla o di parietaria, muffe o acari della polvere.

Come si cura allora l’esofagite eosinofila?

A parte l’approccio alimentare sopra descritto, per quanto riguarda i farmaci possono essere prescritti gli inibitori di pompa protonica, utilizzati anche nel trattamento del reflusso gastroesofageo, da assumere in una prima fase ad alto dosaggio per poi diminuire la dose progressivamente, qualora si riesca a ottenere un buon controllo dei sintomi. Oppure si possono prescrivere dei corticosteroidi topici, che agiscono esclusivamente a livello dell’esofago. Da circa un anno sono infatti disponibili in Italia delle capsule di budesonide (un derivato del cortisone), definite orodispersibili perché si sciolgono in bocca ed esercitano la loro azione antinfiammatoria solo nel tratto dell’esofago. Gli studi clinici dimostrano che riescono a coniugare la remissione dei sintomi a una buona tollerabilità. Se al momento della diagnosi viene riscontrata una stenosi, cioè un restringimento dell’esofago, viene programmato un intervento endoscopico, chiamato dilatazione, al fine di ripristinare il suo normale calibro.

Infine, negli ultimi anni si sta valutando anche l’efficacia dei farmaci biologici. Ovvero anticorpi monoclonali a bersaglio molecolare che agiscono su “tasselli” specifici dell’infiammazione. Di recente è stato approvato dalla Fda americana e dall’Ema (Agenzia europea per i medicinali), ed è in corso di approvazione da parte dell’Aifa, una molecola chiamata dupilumab. Il suo scopo? Inibire i due fattori-chiave dell’infiammazione tipo Th2 che sono l’interleuchina 4 e l’interleuchina 13. Dupilumab si somministra con un’iniezione sottocutanea una volta alla settimana e porta a un miglioramento significativo della capacità di deglutire, nonché alla remissione dei segni tipici della malattia a livello istologico. Anche gli effetti collaterali sono molto rari: mal di testa, faringite e reazioni locali nel punto di inoculazione.

Esofagite eosinofila, alle radici del nome

Esofagite: il suffisso “ite” indica sempre un’infiammazione, in questo caso dell’esofago. Eosinofila: la malattia comporta una reazione infiammatoria nella quale le cellule immunitarie coinvolte sono gli eosinofili. Quest’ultimi sono una classe di globuli bianchi (leucociti) che si attiva anche in caso di infestazioni parassitarie e di malattie allergiche quali l’asma, la poliposi nasale e la dermatite atopica. Bisogna aggiungere che non sempre chi è affetto da esofagite eosinofila presenta negli esami del sangue un innalzamento degli eosinofili, che spesso restano nella norma. Ed è per questo che per confermare la diagnosi occorre fare l’esame endoscopico con biopsia, in modo da accertare la loro presenza nell’esofago.

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