Implacabile l’epidemia continua la sua corsa. Le statistiche ci informano che in Italia abbiamo superato la soglia di un milione di casi totali e che questa settimana abbiamo avuto un picco di decessi giornalieri (623) che ci ha fatto superare tutti gli altri paesi europei, compresa la Russia. Dagli ospedali arrivano allarmi per la crescita delle degenze che sta diventando insostenibile. Il numero totale dei ricoverati (29.444) alla data dell’11 novembre ha superato il picco di 29.010 ricoverati registrato il 4 aprile quando ci trovavamo al culmine della prima fase dell’epidemia, mentre cresce inesorabilmente il numero dei ricoverati in terapia intensiva (3.081). Molte strutture ospedaliere sono prossime al collasso, in molti ospedali è stato chiuso il pronto soccorso per l’impossibilità di ricevere nuovi ammalati ed in molti casi gli ammalati restano parcheggiati sulle barelle per più giorni. Un drammatico filmato girato all’interno del pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli ci mostra una situazione di criticità della struttura e di sofferenza estrema dei ricoverati. Dappertutto si denuncia l’impossibilità di incrementare i posti letto e l’assistenza per la carenza di medici e di personale infermieristico.
In questo quadro fosco l’esigenza di attuare delle misure più o meno drastiche di contenimento della diffusione dell’epidemia è stata sfibrata dalla cacofonia istituzionale esplosa dopo l’emanazione del DPCM del 3 novembre, col quale sono state istituite tre zone con livelli crescenti di restrizioni a seconda della gravità della situazione. Un coro polifonico di critiche si è levato dai c.d. “governatori” delle Regioni che hanno contestato le misure imposte, giudicate al tempo stesso sia troppo restrittive, sia troppo poco restrittive, se non addirittura discriminatorie a causa dei diversi livelli territoriali stabiliti. In questi giorni abbiamo toccato con mano la vacuità di questo ridicolo balletto che ha portato le Regioni prima a rivendicare autonomia decisionale, poi a pretendere l’intervento dello Stato, quindi a lamentarsi delle misure adottate.
Con la pandemia ormai fuori controllo, di fronte ad una crisi sanitaria, economica e sociale così grave ci sarebbe bisogno di saldezza delle istituzioni, non di questa scandalosa competizione di potere fra Governo nazionale e “governicchi” regionali. Se c’è una prima lezione da trarre dagli eventi straordinari con i quali ci siamo dovuti confrontare è il fallimento del sistema di regionalismo spinto instaurato con la riforma del titolo V della Costituzione approvato nel 2001. Non abbiamo bisogno di 20 sistemi sanitari locali, con differenti livelli di efficienza/inefficienza e differente capacità di tutela dei diritti/bisogni fondamentali dei cittadini. Tantomeno abbiamo bisogno di 20 sistemi scolastici differenti, o di frazionare le ferrovie, le autostrade, i porti.
La prima preoccupazione che abbiamo in questo momento è di fermare l’epidemia ma il piano sanitario e quello istituzionale non sono separabili. Oltre le patologie naturali ci sono le patologie politiche. Il progetto dell’autonomia differenziata, di cui sono capofila Lombardia e Veneto (appoggiati dall’Emilia Romagna), che pretende di attribuire a queste Regioni la competenza su ben 23 materie, di cui alcune di competenza esclusiva dello Stato, come le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, delegherebbe un potere normativo troppo pervasivo alle Regioni su aspetti che attengono necessariamente alla competenza dello Stato centrale, accrescendo disuguaglianze difficilmente gestibili, come l’emergenza Covid ha reso evidente. In questo modo si aprirebbe un processo disgregante del bene pubblico dell’unità nazionale che porterebbe alla nascita di ministati e alla balcanizzazione dell’Italia.
E’ assurdo che in questa situazione nella Nota di aggiornamento al DEF 2020 il Governo abbia ribadito l’impegno a portare avanti il processo di attuazione del federalismo differenziato inserendo fra i provvedimenti collegati alla decisione di bilancio il ddl “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art. 116, 3 comma, Costituzione”, che pretende di stabilire i binari lungo i quali si dovrà svolgere il processo di autonomia differenziata. A parte l’inutilità di tali disposizioni che non hanno valore costituzionale e possono sempre essere derogate dalle leggi di attuazione delle intese fra lo Stato e le Regioni, è mai possibile che nessun partito si sia chiesto se c’è proprio bisogno in questo momento di spingere sull’acceleratore di un progetto che ci porta alla disgregazione?
Di fronte alla patologia sanitaria ed alla patologia politica, vale un’unica invocazione: fermatela!
di Domenico Gallo
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