«Mi stai dicendo la verità Michalis, vedrò mia figlia?». Michalis è il suo difensore. A parlare, invece, è Eva Kaili, l’ex europarlamentare accusata di corruzione, nel momento in cui ha saputo, qualche giorno fa, della decisione dell’Autorità giudiziaria belga di farle lasciare il carcere.
Rientra a casa dopo quattro mesi di detenzione, senza nemmeno aver potuto vedere la piccola figlia di due anni (se non per due volte) e circa quindici ore di interrogatori serrati, spalmati su due settimane.
Eva Kaili lo affermò immediatamente: «Non farò la fine di Ifigenia» – la giovane che nella mitologia greca avrebbe dovuto essere sacrificata per la ragione di Stato – ma soprattutto «non confesserò mai ciò che non ho fatto».
E così è stato. Per lunghi, interminabili quatto mesi, ha sempre respinto tutte le accuse, in particolare quelle relative ai sacchi di soldi rinvenuti dalla Polizia.
Dunque, nuove e più affascinanti modalità di accertamento del reato: se per quattro mesi, in carcere e senza poter abbracciare la “cosa” più importante, non confessi, eh beh…non l’hai proprio commesso questo fatto. Appare evidente, ai più. Ciò che rimane nell’ombra, invece, è la parte più intrigante della novità. Qualche secolo fa la chiamavano tortura. Oggi non è possibile utilizzarla, ma sono diversi i metodi di coercizione della volontà senza la violenza fisica, trattamenti contrari al senso di umanità idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione. Molti non la postulano neppure. Non per ciò possono ritenersi compatibili con i diritti fondamentali di ogni essere umano, ancorché, ed addirittura, legalizzati da interpretazioni e prassi. Il caso di Eva Kaili ne è un esempio, tra i tanti.
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