«Prima una sensazione di stanchezza, poi la febbre alta fino al ricovero in ospedale. L’isolamento a cui il Coronavirus costringe chi è contagiato è tremendo. Ho avuto paura certo, ma sapevo di potercela fare e così è stato». Da sessanta giorni ricoverato, Giovanni Perito, 72 anni , dirigente delle Acli di Avellino e presidente delle AcliTerra Regionali della Campania, racconta la sua battaglia contro il Covid 19 iniziata quando il 22 maro scorso ha varcato a bordo dell’ambulanza del 118 le porte dell’ospedale “Moscati”.
Quando si è accorto di stare male?
«Ad inizio Marzo la stampa, i mezzi di comunicazione diffondevano sempre di più la notizia della diffusione di un virus letale, quanto sconosciuto. Intanto, verso la seconda settimana di marzo veniamo a sapere che ad Ariano Irpino c’era stato un piccolo focolaio ed io proprio nella settimana precedente ero stato lì. Non conoscevo comunque, fino ad allora, nessuna delle persone dichiarate a mezzo stampa positive e un po’ per questo, un po’ per carattere, non pensavo che il virus potesse arrivare proprio a me. Sicuramente però, mi rendevo conto della gravità della situazione e della necessaria messa in atto delle misure di sicurezza. Proprio per questo dal 9 marzo io e la mia famiglia ci siamo messi in isolamento. In quella settimana, non essendo abituato alla routine domestica, cercavo di costruirmi altre abitudini, qualche piccolo lavoretto in casa, lettura, lavoro, ma già ricordo mi sentivo estremamente stanco, cosa notata più dalla mia famiglia che da me».
Che sintomi ha avvertito?
«Giorno dopo giorno peggioravo, è iniziato tutto con una rinite allergica, che per i miei problemi pensavo fosse normale e con una febbricola, 37, 37.5, ma per mio carattere pensavo sempre fosse un’influenza del momento. Dopo quattro/cinque giorni la febbre, nonostante la tachipirina si alzava la sera, per riabbassarsi la mattina, la stanchezza era sempre di più, tanto che la mia famiglia ha richiesto subito il tampone. Inizialmente però, la disorganizzazione era tanta, quindi il tampone è arrivato dopo qualche giorno dalla richiesta. Intanto anche mia figlia, che in quei giorni si prendeva cura di me, iniziava a stare male. Il giorno 22 Marzo arriva l’esito del tampone».
Cosa ha pensato?
«In cuor mio sapevo, che per le condizioni in cui stavo era necessaria l’ospedalizzazione, ma avevo un profondo desiderio di stare casa, anche per le notizie ascoltate in Tv».
Poi è arrivato il ricovero in ospedale, al “Moscati”. Quando si è reso conto che la situazione stava peggiorando?
«Mia moglie e mia figlia, hanno insistito per il ricovero, non solo per le mie condizioni, ricordo che avevo bisogno di ossigeno, ma anche per i miei problemi di salute pregressi. Non ricordo bene i giorni iniziali del ricovero. Ho trovato inizialmente una sanità, nonostante l’immenso sforzo del personale sanitario, poco attrezzata nella gestione del paziente e, naturalmente, anche disorientata rispetto al virus. Adesso mi rendo conto che siamo stati tra i primi ad ammalarci e mi rendo conto che il momento iniziale è stato confusivo per tutti. Ho apprezzato l’immenso sforzo dei medici e del personale, che soprattutto nella Palazzina Alpi, si è prodigato con estrema professionalità e competenza, li ringrazio tanto».
C’è stato un momento in cui ha pensato di non farcela?
«Ho avuto paura, ma ero sicuro di farcela, nonostante attualmente, dopo circa 60 giorni sia ancora ricoverato. Nei giorni in cui stavo male, pensavo anche al personale sanitario, ai medici e agli infermieri, alla paura che dovevano avere nel rapportarsi con me, e alle loro famiglie. Il contagiato nel momento in cui sta male, non conosce la reale entità del pericolo a cui sta andando incontro, vive in uno stato di disagio, soprattutto perché isolato. Chiuso nel proprio silenzio, senza il contatto di una spalla a cui poter raccontare ciò che ha dentro, o in qualche modo distrarsi dall’isolamento. Nei primi giorni di ricovero avvertivo delle sensazioni strane, avevo proprio un vuoto mentale, dei vuoti di memoria, mi rifiutavo a metter in ordine le cose e non riuscivo a mettere in parole le sensazioni provate. Poi ti interroghi sul senso della vita, sugli errori e gli sbagli fatti, sul bene donato e ricevuto. Dopo circa venti giorni di ospedalizzazione invece, sentendo telefonicamente la famiglia, i colleghi, gli amici di una vita inizi a dare senso e a mettere ordine. Appena le condizioni di salute me l’hanno permesso, ho preso coscienza anche dei tanti messaggi di affetto ricevuti, anche dalle persone che magari conosco solo indirettamente. E’ allora che ti rendi conto che il mondo fuori continua ad andare avanti e non vedi l’ora di ritornare dai tuoi cari.
Anche sua figlia Mariangela è risultata positiva al Covid che, per fortuna, l’ha colpita con meno violenza. Siete riusciti a ricostruire la catena di contatti che avete avuto e che ha portato al vostro contagio?
«Nonostante fossimo in isolamento dal 9 marzo, per le attività sociali in cui eravamo impegnati, non era difficile incontrare persone, poi nel momento in cui è arrivata la diagnosi, l’attenzione è stata centrata soprattutto sulla nostra salute e sui possibili contatti avuti, ma non per risalire al primo contatto del contagio, ma solo per proteggere gli altri. Specifichiamo che quando noi abbiamo ricevuto la diagnosi, già eravamo da 15 giorni in isolamento».
La comunità scientifica è passata, nel giro di poche settimane, dal definire il virus come poco più di un’influenza stagionale ad una pandemia. Lei che lo ha subito, come lo descriverebbe?
«Certamente non come un’influenza stagionale. Con il senno di poi possiamo dirci fortunati, ma non è stato né facile, né veloce. Il mio pensiero va ai tanti che non ce l’hanno fatta, anche amici, come il caro Franco Lo Conte, che non ho potuto salutare e a cui va il mio pensiero, e ad amici che più di me e con me hanno sofferto come Armando Leo, che fortunatamente adesso, trascorre la convalescenza dai suoi cari. Io sono stato trenta giorni in degenza presso il Moscati, dieci presso la palazzina Alpi, sto da dieci giorni nella casa di cura “Villa Maria” di Baiano e sono in attesa dei tamponi. Anche mia figlia, sono passati ormai 50 giorni e sta aspettando ancora l’esito degli ultimi tamponi. Non è una classica influenza, per tutte queste condizioni su menzionate, ma anche per l’isolamento che comporta. Quando mi hanno portato in ospedale con il 118, la cosa più brutta è stato il pensiero di lasciare la mia famiglia, anche per le condizioni in cui si trovavano. Adesso spero anche io di ritornare presto ad abbracciare la mia famiglia e tutti gli amici e le persone che mi sono state vicine».
Siamo passati alla Fase 2 in attesa di capire, verso metà mese, se gli effetti del lockdown siano stati o meno sufficienti a limitare il contagio. A chi oggi ancora sottovaluta la situazione, gira con la mascherina abbassata, addirittura fa aperitivi in gruppo in mezzo alla strada, cosa sente di dire?
«Come già ho detto, mi sento dire che il virus non è una semplice influenza, né tantomeno una passeggiata, ma ci coinvolge tutti in prima persona. E’ necessario muoversi con cautela, ascoltando la comunità scientifica e osservando le disposizioni emanate. Anche per me sarà difficile non stringere la mano alle persone incontrate, non organizzare più le riunioni di un tempo, ma sono consapevole dell’importanza di osservare comportamenti non lesivi della salute delle persone, sperando che questa distanza di sicurezza imposta, ci faccia trovare nuove modalità di incontro e perché no, costruire nuovi modelli di sussidiarietà e solidarietà per una società a misura “ d’uomo”».