Il deserto, Elena e l’umanità

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Attraverso il deserto noi andiamo da lungo tempo. E non ci attende Canaan, la Terra Promessa da Dio Padre. Il deserto che l’umanità sta attraversando, diventa sempre più spaventevole e arido, nonostante il luccichio, ora prenatalizio. E’ il deserto davanti a cui si para il pericolo imminente di una catastrofe ecologica di incalcolabili proporzioni, le cui conseguenze farebbero regredire la civiltà umana di centinaia d’anni. Chi sopravviverà, vivrà in un pianeta inquinato, poco abitabile e alle prese con continui sconvolgenti eventi climatici. Intanto la morte pandemica ha raggiunto a uno a uno cinque milioni e 310 mila esseri umani e circa 300 milioni stanno combattendo contro il Covid per non morire della morte orrenda per soffocamento.

E’ questo l’effetto assolutamente agghiacciante, distruttivo, mortale della reazione della natura all’aggressione nichilistica e folle, quanto miserabile nella sua avidità predatoria, dell’uomo; a essere esatti, della borghesia capitalistico- finanziaria. Tale aggressione, dispiegandosi anche come totale asservimento del lavoro umano al capitale, consiste nel tentativo di dominare la natura per sfruttarne le risorse e le ricchezze all’inverosimile – insomma, invece di rispettarne le leggi, si tenta di rendere la natura qualcosa che dipende dall’uomo, che n’è invece dipendente in quanto essere naturale. Era, perciò, persino facile prevedere che la natura, non più “alma mater”, madre nutrice, si mostrasse con il volto funesto di “noverca”, matrigna, luna nera, com’è livida la falce della luna calante nel cielo della notte.

Martin Heidegger disse nell’intervista pubblicata postuma “Der Spiegel”: ”Solo un Dio ci può salvare”. Ma, dice il poeta, “anche gli dei son fuggiti”, mentre un’umanità ridotta a rapporti umani e sociali mercificati, alienati, resa egoista, cinica dalla pandemia, appare sbandata, un mostro senza testa, una folla in cui a milioni delirano e dicono stupidità pericolose (vedi i no vax).

Secondo noi, a chi, pur con il suo romanticismo deluso, vuole dare un contributo alla salvezza dell’umanità, serve far proprio il senso forte e positivo dell’utopia. Lo ritroviamo nella leggenda della “doppia Elena”. Menelao, di ritorno da Troia, approda presso un’isola egizia. Lasciata la nave nel porto con a bordo la sua regale consorte, si reca dal re dell’isola. Enorme è quindi la sua sorpresa quando vede venirgli incontro una donna identica a sua moglie Elena, che si presenta come la vera Elena, rimastagli fedele, mentre la donna che ha seguito Paride a Troia è un fantasma creato da Hera, protettrice dei matrimoni. Menalao, incredulo, volge il viso verso la nave e vede l’altra Elena dissolversi in fumo e fiamme. Qual è – si chiede Ernst Bloch – la vera Elena? Quella egizia, l’Elena reale, rimasta fedele al suo consorte o l’Elena troiana, la bellissima cocotte, per riconquistare la quale Menelao ha combattuto con l’esercito acheo sotto le mura di Troia, ovvero l’Elena utopica, di sogno che ha abitato per 10 anni un sogno e l’ha realizzato in forma di sogno?

Scegliendo l’Elena di sogno, utopica, possiamo intendere essenzialmente la vita – per dirla con Giuliano Minichiello, come “dono di sé”, tensione morale e umana, impegno a favore non di un’utopia non quanto città perfetta, perché il fiume eracliteo della storia non si ferma in nessun luogo, ma come costruzione di una città migliore, libera e giusta, dove l’umanità si salva e si riconcilia con se stessa, con l’ordine dei viventi e con la natura.

di Luigi Anzalone



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