Il terremoto 40 anni dopo. Gori: una tragedia che unì il Paese. Dall’Irpinia ho ricevuto calore e umanità – IL CIRIACO

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Da giovane studente universitario volontario nell’Irpinia devastata dal sisma, a sindaco di Bergamo, città che ha pagato al Covid 19 un dazio troppo alto in termini di vite umane. Giorgio Gori ripercorre le settimane trascorse a Frigento a portare cibo e medicinali alla comunità colpita dal terremoto, racconta quel filo rosso della solidarietà che unisce Nord e Sud dell’Italia, e parla della “ricostruzione” del Paese post pandemia.

Cosa la spinse a partire, appena ventenne, come giovane volontario nell’Irpinia terremotata?

«La voglia di dare un contributo rispetto ad un evento drammatico non solo per gli abitanti delle zone devastate dal sisma, ma per tutti noi. Anche a distanza di centinaia di chilometri di distanza, il terremoto dell’Irpinia fu vissuto con moltissima apprensione. Come tanti studenti universitari e lavoratori saltuari, potevo permettermi di allontanarmi dalla mia città per un periodo lungo e lo feci. All’epoca la Protezione Civile neanche esisteva ed era naturale che il soccorso a chi si trovava, come nel caso degli irpini, in condizioni improvvise di necessità, arrivasse dal mondo del volontariato che affiancava in qualche modo l’organizzazione degli aiuti da parte delle forze armate. Da Bergamo partimmo in trenta, facemmo un viaggio in pullman e, arrivati in Irpinia, fummo divisi in due squadre. Una fu dirottata a Lioni dove si stava costruendo in quelle ore il Campo Bergamo, punto di riferimento per tutti i volontari, quella di cui facevo parte io invece fu inviata a  Frigento. Ricordo che faceva un freddo pazzesco, nevicava, era difficile resistere nelle tende. A Frigento per fortuna non c’erano state vittime, almeno nell’immediato, ma molti feriti e la devastazione totale di case private ed edifici pubblici. La gente aveva bisogno di tutto: portammo coperte, viveri, medicine, generi di prima necessità, aiutammo a montare le tendopoli che dovevano ospitare cittadini e soccorsi. Fu il nostro modo per renderci utili in una tragedia che non aveva paragoni».

Frigento le ha tributato qualche anno fa la cittadinanza onoraria annoverandola tra gli “angeli del terremoto”. Che ricordo ha del rapporto avuto con le persone del posto?

«Erano persone molto semplici che, nonostante avessero perso tutto, dimostravano una grande dignità e compostezza anche nel dolore. I rapporti furono particolarmente intensi dal punto di vista umano perché, anche al di là dei nostri meriti reali, eravamo visti in quel momento come gli unici in grado di poter portare davvero un aiuto, una salvezza. Mi ha sempre colpito molto come la memoria del nostro aiuto, sia rimasta viva nella comunità di Frigento. E fu con molto piacere che nel 2011 ricevetti l’invito dell’allora sindaco Luigi Famiglietti che volle tributarmi la cittadinanza onoraria del paese. Un riconoscimento che ho raccolto chiaramente a nome di tutti i volontari bergamaschi. In generale credo che quelle che nascono nei momenti di solidarietà e volontariato, sono relazioni destinate a durare per tutta la vita. Sarà lo stesso, a parti invertite, per gli aiuti che i bergamaschi hanno ricevuto durante il dramma del Covid da tanti luoghi d’Italia. Dalla città di Palermo, ad esempio, che ci ha dato soccorso, ha ospitato una comitiva di nostri concittadini che si trovavano in Sicilia quando è scoppiata l’epidemia e che è dovuta rimanere in quarantena in un albergo del centro città per tanti giorni. Quei bergamaschi, tanto lontani da casa in un momento così drammatico, hanno ricevuto attenzioni, gentilezze, cure dai palermitani. La conferma che, nelle circostanze più difficili, si cementano rapporti anche insospettabili destinati a durare nel tempo».

A fare la differenza tra la tragedia dell’Irpinia e i terremoti degli ultimi decenni, è stata la creazione  di una struttura come la Protezione Civile.  E’ stato così anche nel far fronte alla pandemia?

«La nascita della Protezione Civile è stata una conquista di civiltà per il nostro Paese. Gli eventi catastrofici purtroppo ogni tanto capitano, pensiamo all’Irpinia ma anche al Belice, al Friuli, all’Abruzzo, all’Emilia. Ed è evidente che c’è un prima e c’è un dopo rispetto alla Protezione civile. Un prima fatto di soccorsi privi di un’organizzazione nazionale strutturata, e un dopo che è quello che abbiamo vissuto anche con la pandemia. Sono d’accordo con l’idea di mettere in piedi un sistema di regole di ingaggio comuni su tutto il territorio nazionale, perché questo facilita l’esecuzione degli interventi. E quando suona l’allarme bisogna intervenire sempre in modo efficace. In Irpinia ad esempio insieme a noi volontari c’erano i militari. Ricordo benissimo che fummo ospitati in una scuola elementare rimasta in piedi insieme ad alcuni paracadutisti della Folgore. C’era un ufficiale di Siena che divenne il nostro punto di riferimento in quella circostanza. Oggi che non c’è più il servizio militare obbligatorio, fermo restando l’ausilio dei corpi volontari delle forze armate che ci sono sempre, c’è la Protezione civile. La differenza è sostanziale e l’abbiamo toccata con mano in questi mesi di emergenza Covid. E’ grazie alla Protezione Civile se siamo riusciti ad avere un’organizzazione degli aiuti e dei test sierologici, se a Bergamo siamo riusciti a montare un ospedale da campo in dieci giorni, se c’è stata un’organizzazione strutturale per affrontare un evento assolutamente unico e devastante».

Nel libro “Riscatto. Bergamo e l’Italia, appunti per un futuro possibile” Lei affronta alcune questioni. Da dove dovrebbe partire la ricostruzione del Paese post pandemia?

«Dalla scuola, che è diventata uno dei simboli di questo periodo. Il fatto che la scuola sia stato il primo luogo ad essere chiuso e l’ultimo a riaprire, è il segno della insufficiente considerazione, che è diffusa nel nostro Paese, rispetto all’istituzione formativa. E’ da lì che si riparte per raggiungere un’equità sociale non più rinviabile, che passa per  il tema della natalità che ha un impatto fortissimo sugli equilibri demografici, per il lavoro delle donne, per la competitività delle nostre imprese che si misura con la capacità di innovazione che, a sua volta, richiede un capitale umano particolarmente competente. Tutto questo nasce dalla scuola, che abbraccia un campo che va dagli asili nido, dotazione essenziale per restituire un po’ di diritti e per consentire alle donne di lavorare, fino alle specializzazioni universitarie e alla ricerca che sono le punte avanzate del sapere senza le quali non c’è progresso economico».

Volendo trovare delle similitudini con la ricostruzione, nella parte immateriale, dell’Irpinia, quali sono gli errori da non ripetere?

«Per fortuna adesso non ci sarà da ricostruire case e manufatti, ma tanti pezzi di società italiana a cui va data una risposta senza tardare ulteriormente. Il tema centrale della ripresa resta il lavoro. Dal lavoro dipendono il benessere delle persone, la serenità delle famiglie, ma anche la dignità degli individui. Nulla di tutto questo può essere soddisfatto con un sussidio statale.  Nell’Italia delle grandi carenze, il cantiere di primaria importanza che va inaugurato è quello dell’occupazione, in particolar modo dell’occupazione giovanile e femminile. Portare il lavoro femminile alla media europea, equivale a guadagnare 1,5 punti di Pil, né è pensabile che i nostri ragazzi ancora devono fare i conti con  le differenze enormi, in termini di opportunità, tra Nord e Sud. Accanto a questo grande cantiere, ce ne sono altri da aprire per rimettere in moto il Paese: rafforzare e semplificare la macchina amministrativa,  rivedere il sistema della giustizia ancora teatro di molte ingiustizie, basti pensare al livello di carcerazione preventiva che vede il nostro Paese ai primi posti in Europa. Sono tanti i temi su cui bisogna aprire una riflessione con rapidità per costruire le risposte necessarie ad una ripresa che realmente non lasci indietro nessuno».



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