Infarto: c’è un nuovo anticorpo monoclonale

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La ricerca ha messo a punto una terapia con un nuovo anticorpo monoclonale in grado di proteggere il muscolo cardiaco dopo un infarto

All’orizzonte si prospetta una bella novità, che ha portato alla formulazione di un anticorpo monoclonale capace di proteggere il muscolo cardiaco dopo un infarto. È una terapia innovativa, al centro dello studio pubblicato su Nature Communications a firma dei ricercatori del laboratorio di Biologia Cardiovascolare dell’International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology (ICGEB) di Trieste che hanno sviluppato la ricerca con l’Università di Zagabria, in Croazia.

«La ricerca evidenzia che cosa succede nel corso di un infarto del miocardio e nelle ore immediatamente successive», spiega Giovanni Esposito, Presidente di GISE, Società italiana di cardiologia interventistica. «Con la morte dei cardiomiociti, cioè delle cellule cardiache, si attiva una proteina che determina l’accumulo di collagene nella zona infartuata. Questa scoperta riveste un ruolo importante e a sua volta ha portato alla formulazione di un anticorpo monoclonale, in grado di inibire questa proteina».

Che cosa succede durante un infarto

Facciamo un passo indietro. A determinare un infarto del miocardio è la chiusura di una o più coronarie a causa di un trombo, che impedisce parzialmente o totalmente al sangue di arrivare al cuore. Si verifica così un black out di ossigeno che provoca la morte dei cardiomiociti nella zona del muscolo cardiaco colpito. L’organismo reagisce subito a questa situazione e attiva la proteina responsabile della produzione di collagene, che crea una vera e propria cicatrice dove ci sono le cellule necrotizzate. A differenza dei cardiomiociti, però, che hanno come compito quello di far sì che il cuore si contragga, la cicatrice è rigida, e incrementa le difficoltà del muscolo cardiaco. Ed è qui che interviene l’anticorpo monoclonale.

«La ricerca ha evidenziato doppi benefici», sottolinea il professor Esposito. «La terapia blocca la proteina e in questo modo si riduce la formazione di collagene sulla ferita, a vantaggio di una maggiore contrattilità del cuore. In più, si è visto che in questo modo si ottiene una perdita inferiore di cardiomiociti, a vantaggio della salute del sistema cardiovascolare».

I sintomi dell’infarto e l’importanze della tempestività

Gli studi ora proseguono, con l’obiettivo di coinvolgere pazienti e mettere a punto la modalità di intervento più efficace. Ma attenzione. Il farmaco rappresenta un passo in avanti nella cura, ma alla base, in caso di infarto, ciò che è importante è la tempestività.

«Abbiamo fatto notevoli passi avanti nel trattamento dell’infarto, e questo è indubbio, ma è necessario essere rapidi», chiarisce il professor Esposito. «I benefici infatti sono maggiori se si interviene nella cosiddetta “golden hour”, cioè nell’arco di 60-90 minuti dopo l’infarto, quando le possibilità di recupero sono maggiori.

La prima terapia dunque è andare in ospedale il prima possibile in modo che si possa procedere con la rivascolarizzazione, cioè la riapertura della coronaria occlusa e il ripristino della circolazione del sangue, a vantaggio di un numero limitato di morte di cellule cardiache». Sì allora a non perdere tempo con autodiagnosi, ma chiamare subito il 118 in caso di sintomi sospetti, come un senso di oppressione oppure di dolore al torace, difficoltà a respirare, dolore al braccio sinistro, stato di irrequietezza, nausea, vomito, vertigini, stordimento, aumento della sudorazione.

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