La nascita come scelta di coscienza

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Di Monia Gaita

In questo tempo di paura dobbiamo sforzarci a non aver paura, a scuoterci di dosso la polvere del pericolo. Oggi ci percepiamo più deboli, più a picco del solito. È una sensazione brutta perché scopriamo di essere ancora più fragili, ancora più provvisori, ancora più contaminati dal rischio e dalla stanchezza.

La fragilità è un grande ostacolo. È un freno a mano tirato sul fare, sull’entusiasmo, sulla voglia di programmare. È gettare acqua sul fuoco dei desideri, dei sogni, dei propositi belli.

La paura che ci prende spegne i pulsanti della luce, ci lascia al buio.

Non è un buio fisico, ma un buio interiore, un buio metaforico, un buio che fa buio pure di giorno.

 

Il Natale, lo sappiamo, per i cristiani segna l’uscita dal buio e l’ingresso nella luce. Ma pure fuori dalla spiegazione religiosa, la nascita rappresenta un passaggio, un passaggio di stato dal non essere all’essere, oppure da una cosa a un’altra cosa. La nascita implica anche un cambiamento, una trasformazione, l’adozione di una veste nuova e diversa.

 

Non sempre il nuovo e il diverso danno un parto positivo. La vita a volte è una gestante ingenerosa. Non sempre è bello e giusto ciò che nasce.

Ci sono nascite imperfette, nascite difettose, non volute o poco fortunate.

E nascite storte che contro ogni pronostico raddrizzano e rattoppano il decorso a parecchie esistenze.

 

Ma un carattere unisce tutte le nascite: l’ingresso nel mondo.

Certo che preferiremmo un ingresso felice, comodo e protetto dalla sorte favorevole. Questo però non siamo noi a deciderlo. Ognuno di noi fa il suo ingresso nel mondo in modo proprio e discorde dall’ingresso di tanti suoi simili. Gesù lo realizzò in una mangiatoia. Quella fu la sua nascita. La sua nascita, cui ognuno resta libero di credere o non credere, avvenne in una data precisa, dopo il censimento di Augusto e prima della morte di Erode. Ma la sua nascita più vera si sostanziò nel progetto di azioni che abbracciò e predicò convintamente. La sua nascita più vera concise con una scelta di coscienza.

La scelta di coscienza cui ciascuno è interpellato a partecipare, non si coagula attorno a un codice di doveri poiché inerisce a un registro più libero e più nobile della mera obbligatorietà.

Si tratta dell’amore. Non nasciamo necessariamente nell’amore o circondati dall’amore. Anche quando l’amore diserta o quando lo spazio intorno ne è carente, dobbiamo provare a costruirlo, a crearlo e ricrearlo. E non perché è un dovere. E non perché è una legge morale. Ma perché è la sola possibilità per il nostro io di tracciare il rigo di un motivo sulla Terra che né la pioggia né il vento né la lunga catena di fulmini dei secoli potranno cancellare.

Ogni nascita ha qualcosa di mirabile: si replica con i campionari del donare sé stesso agli altri. Non è un atto statico: ha le dita agili e nodose di chi lavora responsabilmente a spazzare la segatura dell’egoismo, a reperire il filo che ci connetta al filo di questa umanità.

La vera nascita resiste a corrosione; non ha culle, soffitti, muri o pavimenti, ma si dirama oltre la comparsa del frutto appena spiccato dall’albero del generare. Zampilla da fonti moltiplicate, propaga alta la sua voce, si batte per i diritti comuni, per la dignità degli ultimi, perché nessuno finisca abbandonato, sofferente e dimenticato, perché l’amore non marcisca nel liquame dell’indifferenza, ma aggreghi le sue molecole diafane alle molecole del mondo.

La vera nascita presuppone una muta. Il bozzolo di quello che eravamo o non eravamo prima, deve schiudersi alla farfalla variopinta che potremo e sapremo diventare.

 



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