“Un viaggio nell’anima attraverso la fisicità, l’esplorazione di un ambiente nel quale i sentimenti hanno una loro corporeità e con i corpi parlano, chiamano, reclamano attenzioni e presenza”. Così Crescenzo Fabrizio racconta la poesia di Rebecca Giliberti, laureata in Didattica dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Napoli, nelle note che accompagnano la mostra “Legami di carta”, curata da Gianluigi Santoro e Antonio Manganiello, inaugurata al Carcere Borbonico, dove resterà fino al 30 novembre. Una poesia che abbraccia la fotografia di Michela Manganiello, studentessa di fotografia all’Accademia di Belle Arti. Ritroviamo nelle sue immagini “testimonianze e visioni del nostro tempo – scrive Gianluigi Santoro – le sue radici e la madre terra immortalate in un paziente bilanciamento dei bianchi e dei neri, costituendosi come un’emancipata visione documentaria, libera nelle sue espressioni, pur mantenendo un’attenzione estetica che esalta le sue potenzialità rappresentative e conoscitive”. “Avevo realizzato – spiega Rebecca – un progetto editoriale in cui i miei versi erano associati ad opere di alcuni artisti, tra cui quelle di Michela. Il riscontro è stato positivo, così abbiamo deciso di portare avanti questa collaborazione. Abbiamo compreso presto di essere due anime affini”.
E’ Michela a spiegare come “Sono fotografie di paesaggio che accompagnano i versi di Rebecca, ugualmente contraddistinte da una nota malinconica, accentuata dall’uso del bianco e nero. Sono paesaggi d’Irpinia ma trovano spazio anche angoli legati ad altri luoghi che ho visitato. Amo molto viaggiare e la macchina fotografica mi accompagna sempre nei miei viaggi. Non mi interessava raccontare questa terra quanto scegliere immagini che fossero espressioni di stato d’animo”. Stati d’animo come quelli evocati da Rebecca nei suoi versi “Frutto di una ricerca interiore, del tentativo di esprimere emozioni scaturite da eventi che ho vissuto. Ad unire me e Michela è proprio la grande importanza che attribuiamo alle emozioni. Siamo due anime che scrutano il mondo attraverso una lente di ingrandimento”. E così ci troviamo di fronti a ruderi, angoli dimenticati, a immagini di un borgo o di boschi sterminati, fotografie che richiamano la malinconia o lo struggimento dei versi di Rebecca “Ogni cosa lascia/una traccia/di sè/E’ l’ombra di qualcosa che è stato/ e ora non è più/Come questo amore/che cerchiamo di trattenere/ma di cui resta solo l’ombra/di quello che è stato/e ora non è più”, “Sento nelle vene il flusso dei pensieri/imperterriti scavano linee ferroviarie” per comprendere che “Cuore mio/sei così fragile/che sembri fatto di vetro”. Prezioso anche l’uso del dialetto che conferisce ancora più forza alla poesia “Sti pensier che sann e’ fumm nun cia fai a l’acchiappa””.