Di Ranieri Popoli.
Per l’ Italia, nazione leader mondale della produzione vitivinicola di eccellenza, l’enoturismo sotto l’aspetto squisitamente normativo è soprattutto quanto condensato nei quattro commi dell’ articolo 1 della legge n. 205 “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018” e nel successivo Decreto Ministeriale attuativo del 12 marzo 2919 dove sono state delineate le “Linee guida e gli indirizzi in merito ai requisiti e agli standard minimi di qualità per l’esercizio dell’attività enoturistica” .
Questi due importanti provvedimenti dettano le linee generali di disciplina di un fenomeno in tendenziale crescita da oltre un ventennio e che ha raggiunto ragguardevoli indici di valore economico. Il tutto per offrire degli standard regolamentari uniformi riguardanti le caratteristiche operative, fiscali e amministrative che consentano correttamente l’avvio, la gestione e lo sviluppo dell’attività enoturistica nel nostro Paese. Purtroppo il dibattito legislativo sul tema è stato assorbito in quello più pregnante dell’approvazione della Legge di Bilancio senza una discussione di merito come lo è stato, invece, per la cosiddetta Legge sul vino. Questo significa che pur ottemperando a una importante esigenza di regolamentazione i provvedimenti non hanno risentito di una necessaria fase di discussione e di approfondimento con i soggetti della filiera che in qualche modo contribuisse a inquadrare la materia in un contesto culturale che contenesse la centralità del territorio e dell’azienda come parte integrante e non separata da esso.
L’enoturismo se vorrà essere un fenomeno diffuso e radicato non può essere immaginato solo come un network di cantine dall’alta qualità ricettiva percepite come luoghi estranei al territorio che li circonda perché si rischierebbe di farle diventare come quei villaggi turistici di lusso che splendono nella miseria dei paesi caraibici di cui è bene non proferire nelle brochures patinate. Dico questo perché è moralmente doveroso ricordare a noi stessi che purtroppo il territorio italiano, in particolare quello meridionale, non è un “continuum” toscano ma una realtà sempre più provata e condizionata dai fenomeni degenerativi antropologici e civili in corso e che sarebbe sbagliato non rappresentare con la dovuta sincerità. L’enoturismo non è solo un fenomeno di promozione imprenditoriale ma un punto alto di riferimento ideale e progettuale indispensabile per costruire una vocazione territoriale sostenibile attraverso la quale si costruisce anche una certa idea di questi nostri spazi molto diversi dalla realtà che è sotto gli occhi di tutti.
Una prima indicazione da seguire dovrebbe essere quella di non pensare a un modello unico da riverberare in modo automatico ma di capire come ogni territorio, per la sua peculiarità, per le sue potenzialità e problematicità si candida a sostenere una scommessa così importante per il suo futuro. Nelle nostre zone, purtroppo, a fronte di una crescita che pure si è registrata nell’ultimo ventennio in ordine al mutamento del panorama agrario, alla diffusione di un tessuto di nuove esperienze imprenditoriali, anche rinomate, della filiera enogastronomica, di iniziative legate al settore enoturistico, abbiamo visto peggiorare notevolmente la qualità della vita delle comunità locali, le condizioni degli enti di natura come i corsi d’acqua, il suolo e l’aria, la tenuta e il funzionamento del patrimonio architettonico e culturale locale, la condizione della viabilità e della logistica pubblica di prossimità. Un territorio sempre più spopolato e abbandonato, in preda alle scorribande quotidiane dell’inciviltà ambientale ma anche alle pulsioni dei poteri forti dello sfruttamento e della speculazione, come può candidarsi a diventare un marchio sinonimo di un enoturismo intelligente e innovativo? Le cantine che in quest’ ultimo ventennio sono sorte meritoriamente nella nostra provincia, scontando sacrifici non indifferenti, hanno potuto reggere e per ceti aspetti affermarsi su un mercato internazionale sempre più vasto e insidioso perché hanno fatto una scelta di fondo importante e cioè quella della qualità e dell’affidabilità che con il tempo ha pagato.
Ma l’enoturismo non è un qualcosa che si realizza a distanza attraverso un testimonial di produzione ma sul posto e non solo nelle quattro mura di una cantina che, in qualche caso, occorre necessariamente attrezzare per corrispondere agli standard richiesti. Il segmento dell’enoturista è dinamico, poliedrico, caratterizzato dalla sete di conoscenza, dal sano capriccio della curiosità e soprattutto della socialità. L’enoturista non vuole solo assaggiare il buon vino e gustare la ricetta gastronomica locale ma vivere il paesaggio, conoscerlo , interagire con esso perché non è uno che viaggia per caso in quanto è uno che ama la lentezza. non tanto del movimento ma del pensiero , vuole ascoltare il suono degli spazi, assaporare momenti di senso. L’enoturista non deve essere necessariamente un super esperto di vini ma un visitatore che vede nel paesaggio enologico un territorio predisposto a corrispondere a un modello culturale di ruralità di civiltà. E’ per questo che un territorio oltre che a essere recuperato deve essere attrezzato. Il turismo senza attrezzature e infrastrutture non si fa. E qui si apre il secondo capitolo della questione. Se un territorio non è attrezzato per i viventi, per coloro che hanno scelto di resistere e restarci, come lo si può rendere fruibile per chi è solo di passaggio? Ma il problema non è tanto l’idea o la proposta quanto la volontà politica di capire il destino di queste aree interne, cioè se farle diventare luoghi attrattivi da recuperare, riattrezzare per essere rivissuti prima che visitati o interregni funzionali ad altri scopi ed equilibri a partire da quelli regionali cari ai sostenitori della egemonia a trazione costieras-metropolitana. Se i soldi si trovano per fare opere pubbliche inutili, se non dannose, per sfruttare l’Irpinia come un grande giacimento di risorse naturali, per spendere fior di milioni di euro per una impiantistica industriale nel ciclo dei rifiuti organici, quando era fattibile la ben più economica e pulita rete delle compostiere di prossimità, quando si preferisce finanziare l’effimero nostrano invece di scrivere la necessaria legge regionale sull’enoturismo che altre regioni italiane hanno da anni, si tarda a investire sulle piste ciclabili, sui parchi fluviali , sul ripristino e il mantenimento dei sentieri rurali, vuol dire che si ha una certa idea della Campania che, al di là di chiacchiere e degli spot, nei fatti non è funzionale alle zone interne e al loro ripensamento vocazionale . E senza un Piano di investimenti pubblici rigoroso e mirato, non affidato all’attuale logica del finanziamento a pioggia ma a una idea organica di sviluppo, noi di infrastrutture utili per l’enoturismo non ne avremo. La nostra provincia se è vero che è indietro rispetto alle infrastrutture materiali e immateriali innovative di certo presenta un patrimonio storico e ambientale di tutto rispetto e interesse. Il problema vero è che sono tanti pezzi di un mosaico che non si rende sistemico e vive in una condizione di limitato utilizzo e di mera esposizione : castelli, centri storici, monumenti, palazzi storici, musei locali, chiese, luoghi di culto, biblioteche comunali, solo per citare le testimonianze maggiormente diffuse. Motivo per cui intorno a un paese ricco di proposte di visitazione non c’è personale sicuro che possa funzionare da guida o società che possano garantire servizi te complementari e i luoghi sono quasi sempre chiusi o incustoditi, l’Agenzia turistica non ha dei riferimenti di certezza per cui opera soprattutto in uscita piuttosto che in entrata rispetto al flusso della clientela. Certamente supporti innovativi come la piattaforma digitale creata dalla Provincia costituiscono uno strumento importante di promozione ma se un turista la visita e scopre le tante bellezze in esse riportate ma poi non può usufruire di alcun sistema di ospitalità organizzata che se ne fa di questo imponente strumento di servizio?
Allora una classe dirigente seria e responsabile, che comprenda non solo i diversi livelli istituzionali ma anche gli operatori economici e i soggetti del mondo socio-associativo, invece di propendere per l’accaparramento del finanziamento per la sagra dell’abbuffata o inseguire improbabili bandi legati ai Fondi Europei costruirebbe un Tavolo provinciale di vertenzialità con la Regione e si batterebbe per avere strumenti di incentivazione sistemica e permanente del turismo nelle aree interne, perché l’enoturismo diventi lavoro, professionalità, intraprendenza imprenditoriale , incubatore di lavoro nuovo e di nuovi lavori, motivazione civile. Certo sarebbe una operazione di lunga lena che forse creerà meno ricadute immediate sotto l’aspetto consensuale ma di certo costituirebbe un merito storico per chi oltre alla gestione è chiamato a governare il futuro di una regione e delle sue province. In tutto questo scenario dove è fondamentale un mutamento della cultura amministrativa dominante, i nostri preziosi operatori di filiera devono rendersi conto che necessitano di una evoluzione che li candidi a essere soggetti politici delle “città territorio” e corresponsabili del loro destino.
L’Irpinia è una terra che “ non deve essere più toccata” perché la sua potenza sta proprio nel fatto che nonostante i diversi tentativi perpetuati ( discariche, trivellazioni, i “golgota eolici”, erosione del suolo,) comunque è ancora un territorio non “occupato” in modo irreversibile come lo sono le mostruose aree suburbane di questa regione. La ripresa della vita sociale dopo la pandemia, si spera definitiva, ha riproposto il tema della potenzialità degli spazi e della vivibilità di questa provincia candidandosi a essere un luogo di riequilibrio di e redistribuzione per andare oltre la cultura dell’ammassamento fisico e culturale. E’ la difesa di questa identità e di questa visione che genera un vero enoturismo e non viceversa. Invece di chiamare presunti tecnici della domenica che propinano ai comuni inutili e onerosi rifacimenti urbani, nei nostri paesi occorre far circolare ricercatori universitari, esperti di economia circolare, progettisti dell’architettura rurale, rappresentanti della sostenibilità ambientale, esponenti dell’associazionismo enogastronomico e della mobilità lenta e sostenibile, energie umane ma anche istituzioni già esistenti , come l’Istituto Alberghiero e l’ Istituto Enologico Agrario, il C.N.R., che pensano tutti insieme e non in maniera autarchica alla “ territorio nuovo”. Se tante bellezze, tante eccellenza , tante tipicità non si mettono a sistema e se non si trasformano in economia reale l’enoturismo resterà solo una susseguirsi di vetrine e di performance . Occorre far scattare un sentimento prima di tutto e fare presto prima che queste terre scompaiano per sempre come testimonianze di civiltà e il pregiato nettare di bacco ritorni a essere il vino dell’oblio di Odisseo.
Ranieri Popoli, cittadino d’Irpinia