“Mi ha sempre affascinato il legame che si stabilisce tra scrittore e lettore, quella che Stephen King chiama telepatia. Quando si legge un libro, il lettore è chiamato a immaginare i luoghi e i personaggi di cui legge, condizionato inevitabilmente dalla sua storia personale, dai film che ha letto, dalla musica che ha ascoltato. L’universo che creerà nella sua testa non sarà mai uguale a quello di un altro lettore”. Spiega così Emanuele Trevi il miracolo della letteratura nel presentare “La casa del mago” al Circolo della stampa di Avellino, in un dialogo denso di spunti di riflessione con la professoressa Roberta De Maio, nell’ambito degli incontri promossi da Per Aenigmata.
“Ho voluto raccontare – prosegue Trevi – l’eredità fisica e morale lasciata da mio padre. L’ho conosciuto poco, mi sono avvicinato a lui quando aveva superato gli 80 anni, non è mai troppo tardi per riannodare i fili della propria memoria. Ho cominciato a studiare la sua vita, a fargli domande, ricordo che mi chiedeva quale fosse il senso di quell’interrogatorio, che per lui era un tortura, non lo sapevo neppure io, so solo che ho raccolto una documentazione ricchissima su di lui. Dopo la morte quelle stesse domande, ho cominciato a rivolgerle agli oggetti, alle tracce che aveva lasciato. Si scrive sempre inseguendo delle tracce. E’ come se ci fosse al momento giusto una convergenza di energie irrazionali”. Racconta come lui, razionale e scettico nei confronti di tutto ciò che non ha una spiegazione scientifica, si sia trovato a dover fare i conti con “qualcosa che non riuscivo a spiegare. Quando mi sono trasferito nella casa di mio padre, era come se avvertissi la persistenza di tracce psichiche, sopravvissute alla sua morte, come se fossi entrato nella storia di un altro. Ho dovuto fare i conti con fenomeni che non riuscivo a spiegarmi. Ma nella vita capita sempre qualcosa che smentisce quello in cui abbiamo sempre creduto. Quello che amo della scrittura è che a volta ti accompagna non avresti pensato di andare”. E sulla psicoanalisi come atto magico “Non essendo riuscito a spiegare cosa facesse, ho lasciato che fosse il lettore a immaginare cosa aveva rappresentato mio padre per i suoi pazienti”.
Ribadisce il potere della lettura che ci “aiuta a non perdere l’orientamento, fondamentale per chi vuole imparare a scrivere” e spiega come “l’amore per la letteratura è assolutamente irrazionale. Saranno sempre pochi i libri che ci cambieranno la vita e questi incontri non sono programmabili”. E sull’urgenza di scrive “Quello che è difficile è capire se sia il momento giusto per scrivere. Poichè se hai troppi ricordi finisci per schiacciare l’immaginazione, se poi si dileguano rischi di perderli”. Ammette come “chi racconta esprime sempre un giudizio sulle cose”, rende omaggio all’amico Franco Arminio, venuto a salutarlo “Mi piace chi come ha fatto Franco con la sua paesologia porta avanti il suo percorso, scava, approfondisce un aspetto del reale e va avanti anche quando i risultati non arrivano, solo loro riescono a scavare la coltre di indifferenza nella quale viviamo”. Ricorda l’esperienza a Montoro come volontario quando era ancora uno studente “Un’esperienza bellissima, sono rimasto due mesi, ricordo il paesaggio devastato ma anche il legame bellissimo con i ragazzi del luogo, questa enorme tenda refettorio in cui si mangiava tutti insieme, tra l’altro benissimo. Era una struttura gestita dalla Caritas austriaca, ricordo ci insegnarono a usare anche il trapano elettrico”
A sottolineare la raffinatezza di un autore che consegna un romanzo che “non può essere certo considerato solo un memoriale”, ma è anche una ricerca di verità, il tentativo di un uomo di fare i conti con il proprio passato.