Di Franco Festa
Ai Platani l’eco dei rumori del Paese dei Balocchi che è diventata la città non arriva. Qui è possibile ancora trovare, nello scempio che è stato fatto di quello che era uno dei luoghi più belli di Avellino, tracce di normalità. Nuovi alberi cercano di soppiantare i vecchi, forzatamente abbattuti, con fortune alterne. Lavori misteriosi bloccano e restringono tratti di strada, il marciapiedi della Caserma è diventato un laboratorio di invenzioni idiote (una pista ciclabile!) e di lavori sempre in corso. La frescura, che era prima il tratto distintivo di quella zona, ora è diventata quasi una chimera, solo in alcuni tratti lascia il suo segno benefico. Uno di questi segmenti di conforto è all’altezza del ricovero Rubilli. O meglio, come oggi si usa dire, della casa di riposo, cancellando con termini più gentili le ombre che parole come ricovero o ospizio portano con sé. E’ facile sprecare, in questo caso, sull’aspetto esterno così curato e ordinato, termini positivi. Rari sono i giardini, in città, così belli, colorati, ricchi di varietà di fiori e di piante meravigliose, quasi lussuriose. E l’osservazione è valida in ogni stagione dell’anno, segno di un intervento amorevole, competente, costante. La bellezza così diffusa aiuta a mettere a tacere tutti gli altri sentimenti che luoghi di questa natura suscitano nell’animo di chi passa, soprattutto la difficile relazione con la vecchiaia, che oggi si risolve girando la faccia, evitando di confrontarsi con il problema. D’altronde il diritto di cittadinanza sembra che spetti solo a chi è giovane e forte, regola ferrea e disumana di una società in cui contano solo le regole imposte dal mercato, in cui vali se produci, non sei nessuno se il tuo turno è terminato. Eppure il Rubilli è uno scrigno di improvvise sorprese. Provate a dare uno sguardo a tante delle aiuole che lo costeggiano all’esterno. Quasi tutte sono curatissime, uno spettacolo emozionante e sempre nuovo di foglie, di piante, di fiori, che la mano paziente di un ospite famoso del Rubilli, don Gerardo Capaldo, ha strappato all’abbandono. Se siete fortunati, vi può anche capitare di incrociare una donna che, seduta all’ombra, scrive su minuscoli foglietti, a stampatello, versi, forse d’amore, forse di nostalgia, forse di speranza. E tante, tante altre figure importanti e preziose per la nostra comunità si muovono lungo il breve viale fino alla porta di ingresso, o nell’ombra delle finestre. In molte stanze, è vero, vince sovrana la solitudine, in altre i segni della malattia rendono tutto più difficile e più lento. Ma tanti potrebbero ancora, se imparassimo ad ascoltare, raccontarci i percorsi misteriosi della loro esistenza, la relazione con un passato della città ai più sconosciuto, il senso vero della vita. Ma non c’è tempo. Oggi è solo il tempo delle fanfaronate, dei Lucignolo impomatati che promettono il paradiso in terra, dei suoi soldatini che annuiscono a comando, come i burattini di Mangiafuoco. Oggi la città è un grande circo rumoroso, con il pubblico che crede di non pagare, che è convinto che tutto sia gratuito, e pagherà invece lacrime e sangue quando la baraonda terminerà. Allora solo l’amorevole attenzione alla natura di Don Gerardo, solo i versi dolorosi e poetici su piccoli fogli dell’ospite del Rubilli, ci ricorderanno il senso della parola umanità.