di Rosa Bianco
C’è una magia sottile, che si sprigiona ogni volta che la parola poetica torna a risuonare in un consesso colto, quando le voci della letteratura, della musica e dell’arte si intrecciano per restituire la profondità di un’epoca perduta. Ad Avellino, ieri pomeriggio, il Circolo della Stampa si è fatto teatro di un evento, che ha saputo celebrare con raffinata sensibilità il genio e il tormento di Salvatore Di Giacomo, poeta della memoria e della malinconia.
Promossa dall’Associazione culturale ORIZZONTI, presieduta da Paolino Marotta, l’iniziativa “Le inesorabili dimenticanze del Tempo: la poesia di Salvatore Di Giacomo nella Napoli letteraria fra Otto e Novecento” ha brillato per la qualità del dibattito e l’intensità delle emozioni suscitate. Ospite d’eccezione, il Professor Toni Iermano, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ha tenuto una lectio magistralis capace di restituire la grandezza e la modernità del poeta napoletano, conducendo il pubblico in un viaggio nei meandri della sua lirica e nella Napoli di fine Ottocento.
Di Giacomo, “melanconico in dormiveglia” – come lo ha definito Iermano – si erge a custode di un tempo irrimediabilmente sfuggito, testimone di una città sventrata dalla modernità, privata delle sue viscere popolari nel nome del progresso. La sua poesia si fa memoria di ciò che non c’è più, un canto che si leva dalle rovine della storia, per preservare il cuore pulsante di una cultura destinata all’oblio. Qui si innesta il parallelo con Baudelaire, padre di un pensiero che vede il tempo non come conservazione, ma come perdita inesorabile.
La Napoli che Di Giacomo descrive è quella della plebe bimillenaria, della saggezza greca sopravvissuta nei vicoli, della grandezza barocca e della miseria struggente. Il poeta assiste al dissolversi di questo universo sotto i colpi della politica di risanamento del 1885, che non solo distrugge fisicamente la città antica, ma spezza il legame tra il tempo del cuore e il tempo della storia. Così, mentre il Vomero nasce come simbolo di una modernizzazione forzata, la napoletanità autentica si disperde, lasciando dietro di sé un vuoto che solo la poesia può colmare.
Il poeta della Napoli perduta
A questo punto della sua lezione, il Professor Iermano ha ricostruito con grande finezza critica la figura di Salvatore Di Giacomo, collocandolo all’interno del panorama letterario del tempo.
Nato a Napoli il 12 marzo 1860, Di Giacomo fu avviato agli studi di medicina, ma ben presto abbandonò questa strada per dedicarsi interamente alla letteratura. Giornalista, critico e poeta, si immerse nella cultura europea del tempo, subendo il fascino del simbolismo francese e della poetica di Baudelaire, elementi che segnarono profondamente la sua concezione del tempo e della memoria.
La sua fama si deve soprattutto alla sua poesia dialettale, che raggiunge vette di altissima liricità e che ha dato vita ad alcune delle più celebri canzoni napoletane.
Di Giacomo ha saputo coniugare il dialetto napoletano con una sensibilità lirica universale, creando immagini delicate e vibranti, capaci di evocare l’essenza di una città sospesa tra il passato e il presente.
Il teatro e la narrativa
Ma Di Giacomo non fu solo poeta: si cimentò con successo anche nella drammaturgia. Il suo capolavoro teatrale, “Assunta Spina” (1909), è un dramma naturalista e verista, che racconta con crudezza e intensità il destino di una donna travolta dalla violenza e dalla fatalità. L’opera, poi adattata per il cinema, è considerata un modello di realismo e di denuncia sociale.
Si dedicò anche alla narrativa e alla ricerca storica, pubblicando numerosi saggi e racconti sulla cultura popolare napoletana. Il suo lavoro di filologo e studioso si concentrò in particolare sulla canzone napoletana e sulle tradizioni del passato, cercando di preservarne la memoria in un’epoca che andava rapidamente trasformandosi.
Un poeta tra nostalgia e modernità
Il tempo, la memoria e la nostalgia sono i temi centrali della sua opera. Di Giacomo si fa cantore di una Napoli che scompare, inghiottita dalla modernizzazione e dalle trasformazioni urbanistiche della fine del XIX secolo. La sua poetica è quella del decadentismo e del crepuscolarismo, con toni malinconici che richiamano Giacomo Leopardi.
Lo stile di Di Giacomo è caratterizzato da un uso sapiente del dialetto napoletano, che nelle sue mani si eleva a lingua poetica pura, capace di esprimere sentimenti universali con straordinaria musicalità.
Negli ultimi anni, il poeta si ritirò progressivamente dalla scena pubblica, dedicandosi agli studi eruditi, riversando tutta la sua intimità in lettere struggenti e malinconiche indirizzate alla moglie Elisa Avigliano, simili a quelle scritte alla polacca Elena, con la quale aveva avuto una relazione platonica. In queste missive, il poeta si mostra fragile, nostalgico e profondamente legato alla memoria, esprimendo un amore intenso e una rassegnata consapevolezza del tempo che passa. Morì a Napoli il 5 aprile 1934, lasciando un’eredità che ancora oggi riecheggia nella cultura napoletana e italiana.
La lezione della poesia
La serata è stata impreziosita dalla vibrante interpretazione del giovane attore Gennaro Saveriano, che ha dato nuova linfa alle liriche del poeta, e dall’intensa esecuzione del Maestro Renato Spina, capace di restituire la musicalità struggente delle celebri canzoni di Di Giacomo. A suggellare l’omaggio, l’inaugurazione della mostra di pittura dell’artista Achille D’Onofrio, le cui tele hanno suscitato il plauso del pubblico.
L’iniziativa ha rappresentato non solo un tributo a un grande poeta, ma anche un monito: la memoria letteraria di una città è un patrimonio fragile, costantemente minacciato dall’incuria e dall’indifferenza del presente. Di Giacomo ci insegna che solo attraverso la poesia possiamo conservare le vestigia di un mondo che il tempo vorrebbe cancellare. E in un’epoca come la nostra, in cui il passato sembra farsi sempre più evanescente, il suo monito risuona con un’urgenza ancora più grande.
A chiudere questa celebrazione, le parole dello stesso Di Giacomo, intonate dal Maestro Spina, ci hanno inondato di soavità e di dolcezza:
“Era de maggio, e te cadeano ‘nziOrno,
a schiocche a schiocche, li ccerase rosse…”
Così, come i petali di un tempo irripetibile, la poesia di Di Giacomo continua a cadere lieve nella nostra memoria, testimone di una bellezza che il tempo non potrà mai cancellare del tutto.