Perché abbiamo bisogno di tenerezza: i suoi benefici

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La tenerezza sembra un sentimento che non ha bisogno di definizioni, da come lo diamo per acquisito nel nostro corredo comportamentale: a chi non capita di avere un attimo di commozione di fronte a un’immagine dolce, a un bambino che muove i primi passi nel mondo, a un anziano che fa fatica ad attraversare la strada? Sensazioni comuni, ricorrenti che viviamo, spesso, come fini a se stesse. Lo psichiatra Eugenio Borgna, però, nel suo ultimo libro Tenerezza (Einaudi) allarga il cerchio della questione, indaga sul suo significato semantico, e arriva a conclusioni più forti e intense rispetto a quella generica empatia, quella evanescente commozione, quella vaga solidarietà che etichettiamo come tenerezza. Per farla diventare lo strumento che ci apre al mondo, migliorandolo. Ecco cosa ha detto a Starbene.

Professor Borgna, da dove sgorga la tenerezza?

Dalla nostra interiorità dove, come scrive Sant’Agostino nelle Confessioni, abita la verità. È uno stato d’animo, una situazione emozionale che nasce dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un uguale destino. Fa parte della vita, individuale e comunitaria, poiché risponde a una delle esigenze ineliminabili di ciascuno: il non essere soli.

La sua caratteristica qual è?

La tenerezza, la più fragile ed evanescente delle emozioni, non è innata ma nasce e muore dentro di noi quando vuole. Una specie di “cera” che cambia forma a seconda di quello che avviene dentro e fuori di noi. Scaturisce nel momento in cui riviviamo in noi le vibrazioni liete o dolorose che toccano gli altri, e ci mette nelle condizioni di ascoltarle in modo profondo.

È un ponte, allora, tra noi e il mondo…

Nella tenerezza si abbattono le barriere che separano le persone, l’una dall’altra, creando relazioni di reciprocità, gentili, dolci e accoglienti. Il suo effetto immediato è che ci fa sentire il prossimo come una persona e non una cosa. E, quindi, ci permette di uscire dai confini del nostro io, della nostra soggettività e ci libera dall’egoismo, dalla smania di successo, dall’invidia, dalla superficialità, per metterci nei panni altrui. Se seguissimo, più spesso, la spinta della tenerezza, che in sostanza ci fa avvertire il lato umano delle situazioni (e come tale pieno di imperfezioni e dolore), potremmo risparmiarci molti malesseri, incomprensioni, delusioni, per esempio.

E su di noi che effetto ha?

È un sentimento che aiuta a conoscere e lenire le ferite dell’anima, in senso universale. La tenerezza, infatti, si comporta come un magnete che richiama attese, dolori, amicizie e indifferenze che sono in noi. Allarga, quindi, i confini anche della nostra vita psichica, ridestando emozioni, pensieri, suggestioni silenziosi e che facilmente si sfarinano a contatto con la quotidianità così distruttiva.

Come si coltiva?

Non è facile, nel senso che la tenerezza richiede di fare sempre un grande lavoro introspettivo dentro noi stessi. Solo quando prima riconosciamo le nostre fragilità, proviamo vicinanza e solidarietà con quelle degli altri. Vista così, la tenerezza è un’emozione rivoluzionaria: incrina quelle famose ”certezze” razionali che tutti ci costruiamo per difenderci e ci fa capire l’originalità, la ricchezza, la molteplicità, la complessità della vita che alberga in tutti noi.

Spesso, tendiamo a confonderla con la gentilezza, però…

Nella tenerezza confluiscono tanti sentimenti delicati, dalla dolcezza alla mitezza fino alla fragilità, per questo non è così facile definirla. Quella che le assomiglia di più è la gentilezza: sono sorelle gemelle, ma diverse nel loro Dna. La gentilezza ha gesti e comportamenti educati, ma non è intessuta di interiorità profonda, come lo è la tenerezza. Si può essere gentili con un cuore di pietra, ma non sarà mai così nella tenerezza, che riunisce anima e corpo in una continua alleanza.

In che modo?

La tenerezza non si esprime solo con parole dolci, bonarie o indulgenti ma anche con il linguaggio del corpo: uno sguardo, un sorriso, una lacrima, una stretta di mano, una carezza, un abbraccio. È quella manifestazione emotiva che ci fa sperimentare il corpo come vivente, e non solo come corpo anatomico. Per questo, è più facile essere gentili che teneri. La tenerezza, che è sempre un intreccio di spirito e cuore, ha spesso bisogno di ascolto, attenzione, silenzio, attesa per carpire quelle richieste d’aiuto che vengono dalle frasi ma anche dai volti, dagli sguardi, dalle espressioni che gli altri ci lanciano.

Non è, quindi, così scontato essere teneri?

No, ci vuole un’educazione in tal senso, immaginando quali parole vorremmo sentire dagli altri, se fossimo noi a stare male, e ad avere bisogno delle parole che ci aprano alla speranza. Costa tempo, impegno, fatica, per ricercare l’incontro tra il nostro cuore e quello degli altri.

E poi è così delicata…

Sì, si rompe facilmente, basta uno sguardo sbagliato ed è ferita irrimediabilmente. Ma non dobbiamo mai stancarci di cercarla. Senza tenerezza, la vita si inaridisce, raggelandosi. Perché ci esponiamo al rischio di essere divorati dall’ombra della paura. Incapaci di ritrovare la speranza che può dare solo la generosità, la fratellanza, l’accoglienza. E destinati a vivere nel buio, e non nella luce.

4 modi per esprimere la tenerezza

LE LACRIME. Non vanno represse, come un segno di debolezza. Accogliere quelle degli altri, e le nostre senza moti d’insofferenza, disagio o vergogna, è una prova importante di sensibilità e apertura. Le lacrime vere, infatti, testimoniano che ci siamo sganciati dal controllo della nostra razionalità per dare voce all’interiorità, la prima fonte della tenerezza.

LE PAROLE. Riflettiamo sempre sul destin delle espressioni che usiamo, e quelle che dovremmo usare. Essere teneri, prima battuta, è pensare bene a quello che si dice (e non si dice) per evitare parole sbagliate e immotivate, sconsiderate e indifferenti, che sono sempre causa di dolore e di angoscia, di tristezza e disperazione nell’altro.

IL SORRISO. Di fronte a una situazione di sconforto, d’angoscia ci sta anche un sorriso, come espressione di tenerezza. In un certo senso, questo gesto prelude al ritorno della gioia dopo il dolore, come se ne annunciasse la guarigione. Consentendo, così, a una persona di vivere in modo diverso la sua sofferenza. È come lasciarle vedere uno spiraglio di speranza, di un futuro migliore. 

LO SGUARDO. L’incontro tra noi e gli altri si gioca essenzialmente sulla scia di uno sguardo. Non ce n’è uno uguale all’altro, il suo linguaggio cambia in noi da un momento all’altro sull’input dei nostri veri ma diversi stati d’animo. Quindi, guardiamo sempre negli occhi le persone che incontriamo: per capire se qualcuno ha bisogno d’aiuto, per dare conforto anche solo con un’occhiata tenera. Da sola ispira quella fiducia che fa ripartire.

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