Il grande tennista Rafael Nadal non è solo il “re della terra battuta”. È anche il campione della psicologia inversa, come ha accennato in una conferenza stampa il suo collega-rivale, il greco Stefano Tsitsipas: “Quando dice che non può giocare e ha i suoi noti problemi al piede, Nadal ti sta praticamente minacciando. In questo caso, infatti, possiamo parlare di psicologia inversa, secondo me: quando è in situazioni difficili, ci mette un livello di intensità tale che gareggiare con lui è ancora più complicato”.
Lo spagnolo, recordman di titoli Slam a dispetto dell’età e dei guai fisici, è un Dio dello sport, e lo sappiamo. Ma da lui possiamo prendere qualche tratto di psicologia inversa, per raggiungere con minor fatica (e più concretezza) nella vita quotidiana i nostri piccoli, grandi traguardi. E, in questo percorso ci guida Stefania Ortensi, psicologa dello sport e del benessere.
È un grande antistress
«La psicologia inversa (o contraria) è una tecnica psicologica di convincimento, che può essere utilizzata sugli altri come su noi stessi. L’esempio di Nadal è un tipico caso di self-help», spiega la dottoressa Ortensi.
«Agisce in tal senso poiché abbassa l’asticella delle nostre aspettative su una certa performance. Infatti, in qualsiasi prova, che sia un colloquio di lavoro, un esame, un concorso, una gara o una scelta economica, fa bene ricordare a noi stessi che ci possono essere degli ostacoli fuori dalla nostra volontà (per Nadal il piede malato, per noi magari il poco tempo per prepararsi, la difficoltà di un test, la presenza di concorrenti preparati, lo spostamento improvviso della data): per effetto di quest’alibi funzionale, l’ansia da prestazione, il principale nemico di qualsiasi attività, tende a flettersi e, perciò si ”viaggia” verso la meta più liberi dalla paura di sbagliare, di fallire. La psicologia inversa riduce, insomma, la pressione legata al risultato, e l’esito è farci agire meglio. Per di più, quando ci diamo possibilità contenute di successo (se va tanto meglio, se non va in qualche modo ero preparato…) non percepiamo i nostri sforzi inutili. Non è una considerazione irrilevante: così ci ripariamo anche dalle delusioni, che sono sempre invalidanti sullo stimolo a ripartire e a portare a casa il traguardo che ci sta a cuore».
Presenta dei rischi
Va bene, la psicologia inversa può essere un meccanismo di autodifesa ma non è “buona” per ogni circostanza. Qualche precauzione d’uso ci vuole, altrimenti scade nell’auto-fustigazione.
«Se ogni volta che abbiamo una sfida di fronte, ci riempiamo la testa di “frasi invertite” (non ce la farò mai per questo o per quel motivo) finiremo per cadere nella trappola della demotivazione e della rinuncia», avverte l’esperta. «Una cosa è dirsi di non essere mai ok, un’altra invece è caricarsi con qualche limite (ora ho questo problema; non conosco le reazioni dell’avversario; sono bravo/a ma, di fatto, per quel lavoro cercano competenze diverse dalle mie). Insomma, i trucchi al contrario funzionano bene solo se la nostra autostima è solida al di là di quel risultato, abbiamo una provata esperienza (e senso d’efficacia) in quel tipo di prestazione, e soprattutto, puntiamo a un obiettivo chiaro. Siamo in equilibrio, cioè, tra la consapevolezza del nostro valore e la mutevolezza (e l’imprevedibilità) dei tanti elementi che possono condizionare la nostra azione. Tornando a bomba su Nadal: lui sa qual è il suo lavoro, si riconosce come un campione ma in gara s’alleggerisce dicendosi ”non sto bene e forse non vincerò. Di fatto, però, non ci crede davvero, e si vede dai risultati».
Consiglio esteso ai comuni mortali: lasciamo perdere la psicologia inversa se siamo alle prese con un’impresa inedita, o la vita, per età e rodaggio, ci deve ancora “testare”. «Qui, contro la tensione paga di più lo spostarsi sul pensiero positivo, cioè focalizzarci sull’azione che stiamo facendo, e non sul risultato».
La teoria della reattanza
Al di là della sua funzione rassicurante di ”tenuta mentale”, la psicologia inversa è conosciuta soprattutto come una metodica di persuasione indiretta sugli altri.
«Ossia, si dice (o si fa) qualcosa che è l’opposto di quello che vogliamo o desideriamo che una persona faccia, in modo da portarla dalla nostra parte», riprende la psicologa. «È più probabile, infatti, che un bambino mangi i pomodori se diciamo “Qui ci sono delle verdure buonissime, va bene comunque che non le tocchi” che forzarlo a ogni pasto; oppure che un’adolescente si metta sui libri dopo la frase: “Anche se non studi, per me è lo stesso” al posto di asfissiarlo con prediche sull’importanza della scuola. Mentre divieti e obblighi non piacciono a nessuno, e si tende a sfuggirgli per riaffermare la propria autonomia, la psicologia inversa fa leva sull’impulso ribelle (teoria della reattanza) delle persone. E non dire apertamente ciò che vogliamo da nostro figlio (o da chiunque altro) lo induce a pensare che se mangia o studia è solo frutto della sua scelta. Meglio: facendolo si è opposto alla nostra indifferenza».
Alcuni studi, non a caso, dimostrano che ragazzi cresciuti in famiglie che non calcano la mano circa l’uso dell’alcol o delle droghe tendono a non abusarne.
C’è la regola del buonsenso
Non c’è campo della vita dove la psicologia invertita non ci possa portare un profitto. Nel lavoro può stemperare inutili conflitti; nelle relazioni umane ci permette di diventare influenti senza farci apparire bulletti o petulanti. E in amore può renderci più attrattivi.
«Allontanarsi a tratti, mostrare un filo di distacco, buttare qua e là qualche complimento ricevuto aiuta, a volte, a conquistare qualcuno o a ravvivare un legame in stallo», conclude Ortensi. «Quantomeno ha l’effetto d’indurre l’altro a pensare se e quanto siamo importanti per lui/lei».
In ogni caso, vince sempre il buonsenso: a piccole dosi e in contesti che esigono una pronta soluzione, la psicologia inversa può semplificare la vita. Invece, adottarla come stile comportamentale è un inganno: per noi, soprattutto, che non ci sentiamo mai all’altezza delle situazioni e che sfruttiamo le debolezze altrui per emergere.
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