Popoli: «Il Parlamento Ue cambia la Pac, il rischio dell’agro-business» – IL CIRIACO

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«L’ Unione Europea ha istituito con i Trattati fondativi di Roma del 1957 la “Politica Agricola Comune” /PAC”  una delle più importanti dell’Organismo interstatale tanto che oggi copre ben il 40% del Bilancio comunitario.

L’obiettivo era quello di sostenere e incentivare la produzione agro alimentare in modo da rendere autosufficiente l’Europa garantendone la qualità, la sicurezza e la correttezza dei prezzi proteggendo un settore che per la sua peculiarità era esposto alla perturbabilità e agli squilibri del mercato interno e internazionale.

Nel tempo, con l’evoluzione della cultura della sostenibilità e dell’ambiente, la PAC ha fortemente innovato le sue politiche  di azione riformando i Fondi Strutturali e le loro modalità di attuazione e gli stessi obiettivi strategici.  Nel 2013, infatti,  è stata realizzata  un’ importante riforma seguendo due strategie di indirizzo: quella del “Green deal” e quella del “Farm to fork” .

La prima è la sintesi di un complesso di politiche agro-alimentari promosse dalla Commissione Europea con il generoso obiettivo di raggiungere nel vecchio continente entro la metà del secolo la cosiddetta soglia della neutralità climatica, con particolare riferimento alle emissioni inquinanti attraverso l’introduzione di innovazioni sistemiche come la progressiva introduzione dell’economia circolare.

La seconda riguarda il processo di sostenibilità biologica del sistema alimentare rispetto a target non più consumistici ma di rigenerazione e di  tutela dei diritti del cittadino, degli ecosistemi e delle evoluzioni geo-climatiche.  Il budget è di ben  400 milioni di euro .

Ma il 23 ottobre scorso, tra il silenzio generale e le distrazioni dovute al delicato momento che quasi tutti gli Stati del mondo stanno attraversando, il Parlamento Europeo con il voto dei gruppi del Partito Popolare Europeo, di quello dei Socialisti e Democratici, nonché dei Liberali, e quello contrario dei Verdi, della Sinistra radicale e di liberi deputati ,  con un’ampia maggioranza ha votato una nuova riforma della PAC.

Si tratta di un pacchetto di misure che regoleranno in modo nuovo  la politica agricola comunitaria e l’impatto  sul clima, la salute, l’economia  e l’ambiente per il prossimo settennato, affidando, per la prima volta,  le ingenti risorse finanziarie previste ai singoli Stati.

Un passaggio, questo, molto delicato in quanto si rischia una gestione che risponde si ai principi di autodeterminazione dei singoli paesi ma apre importanti questioni di corrispondenza da parte di questi ultimi rispetto ai parametri condivisi stabiliti dagli organismi istituzionali comunitari.   .

Infatti questo settore, pensiamo al nostro Paese tanto per capirci, è uno strumento formidabile per creare consenso attraverso le filiere istituzionali di ricaduta intorno alle quali diversi sono i soggetti sociali ed  economici  che vi si relazionano.

Da tener presente che uno dei punti cardine riformatori delle politiche comunitarie agro-ambientali è stato quella di corrispondere alle enormi sfide della globalizzazione, ahi noi selvaggia, cercando di fuoriuscire da una logica improduttiva assistenzialistica e orientandosi verso una sussidiarietà operosa.

Non a caso il fulcro su cui si è basato l’accordo tra i maggiori gruppi europarlamentari è stato quello dei sussidi prevedendo che la metà dei fondi della PAC fossero  usati come supporto al reddito degli agricoltori ma senza condizioni vincolanti in tema ambientale.

Una decisione dal sapore conservativo di vecchie logiche che hanno  già presentato   limiti e distorsioni  dimostrando di non essere all’altezza delle sfide dell’innovazione ecologica e di produrre profonde sperequazioni sociali considerato che ha distribuito l’80% dei fondi europei al solo 20% degli agricoltori: quelli più grandi.

Anche per questi motivi colpisce la repentina  condivisione delle grandi organizzazioni del settore  che sembrano non accorgersi delle coraggiose prese di posizioni del mondo dell’associazionismo europeo e nazionale, come Greenpeace,Slow Food, Legambiente,    che hanno manifestato una forte e motivata criticità nei confronti di tale orientamento.

In effetti a leggere i processi verbali della discussione plenaria si percepisce una sorta di paradosso che nel provvedimento vede sul piano concettuale una certa spinta alla realizzazione del “Green Deal” con una serie di provvedimenti che senza entrare nel dettaglio, pur delineano importanti novità, ma dall’altra lo svuota di contenuti e lo priva di strumenti di realizzazione rendendo meno credibile il raggiungimento dei livelli minimi degli obiettivi pluriennali.

Senza rifugiarci in semplificazioni ideologiche o di pregiudizio è oggettivo riconoscere che il patto politico trasversale consumatosi all’interno dell’Emiciclo di Strasburgo ha di fatti proteso a sostenere in prevalenza il modello fondato sull’agricoltura intensiva, che come sappiamo, in nome della competizione globalizzata intende concorrere sempre più con i criteri della deregulation d’oltre oceano favorendo le lobbies dell’agribusiness e i grandi proprietari terrieri estensivi.

Tutto ciò  a discapito di una crescita della straordinaria cultura della ricerca, della coltivazione e della pianificazione fondata sul paradigma della  biodiversità  e  della stessa democrazia territoriale.

Adesso per evitare il fallimento delle sue due strategie “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030” si  sarà costretti a intraprendere  un’azione forte e decisa nell’ambito del negoziato del cosiddetto “Trilogo”, la triade istituzionale di vertice dell’Unione Europea, ponendo sul tavolo la totale incompatibilità di questa PAC con gli impegni assunti rispetto all’  ambiente, al clima e alla biodiversità.

Occorreva una profonda e radicale riforma della PAC,e non un compromesso al ribasso come quello che è stato approvato, hanno sostenuto 3600  scienziati, ricercatori ed esperti del settore allarmati dalla decisione  del Parlamento Europeo .

E’ ancora presto per capire l’evoluzione di tale confronto e quali margini di cambiamento ci potranno essere ma di certo per zone  particolari come quelle dell’Irpinia, dove esiste una stringente necessità di spostare il baricentro delle politiche agricole dalla tradizionale settorialità alla valorizzazione innovativa e sostenibile del  territorio, questa riforma non offre le migliori garanzie in merito.

Occorre da subito  aprire un dibattito utile e competente in merito e dare vita a una forte attenzione da parte di tutti i cittadini ma anche del settore  associativo e istituzionale locale e soprattutto del vasto mondo agricolo.

Se ancora perseveriamo nell’illusione che l’agricoltura debba essere  una faccenda riservata ai soli operatori di filiera e un canale privilegiato del consenso di ricaduta politico  e non una questione di interesse  generale dell’intero eco sistema  territoriale,  vuol dire che non creeremo mai condizioni strutturali di  un reale cambiamento ma continueremo ad alimentare un moderno mito bucolico  per la terra promessa che verrà».   



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