“Capitano tutte a me! Ti ho detto dell’ultimo casino sul lavoro? Il mio fidanzato? Meglio non parlarne, un caso umano. Fai presto a dire tu di non pensarci. A te va tutto bene!”. Chi si lamenta ha una visione del mondo molto ristretta: è come se guardasse la sua vita dal buco della serratura. E non vede tutto il contesto intorno. Questa inquadratura parziale ci fa rimanere bloccati dentro uno spazio emotivo malsano, ma spesso per vedere le sabbie mobili in cui siamo incastrati occorre uno sguardo esterno, una mano tesa, una strategia nuova.
«Ci lamentiamo attraverso le parole, che sono simboli con una grande capacità evocativa», afferma Massimo Giusti, psicoterapeuta a Firenze e a Follonica. «Ogni parola è una chiave che apre una porta a una determinata esperienza, che può far risuonare le nostre emozioni in modo positivo o negativo. È importante quindi partire dalla psicolinguistica per capire quanto chi si lamenta in continuazione stia danneggiando se stesso.
Se abbiamo immagazzinato delle esperienze in cui non ci siamo sentiti all’altezza, è probabile che in una situazione sfidante ci ripeteremo quella frase che ci rimanda sfiducia e inadeguatezza. Facciamo allora un passo indietro e cerchiamo di “bonificare” il nostro linguaggio a monte. Quando ci si rammarica si usano delle espressioni che richiamano esperienze negative archiviate nella nostra memoria. E parlandone è come se ci costringessimo a riviverle nel presente. Iniziamo quindi a eliminare dal nostro vocabolario costruzioni linguistiche come ”non sono capace”, “non riesco”, “non valgo nulla”, “non sono all’altezza”. Il linguaggio definisce chi siamo. Nel libro che ho appena pubblicato Sempre mezzo pieno consiglio un esercizio ad hoc».
Perché ci lamentiamo?
Facciamo una radiografia del “lagnoso”. In genere mette in atto questi comportamenti per 3 motivi: per abitudine, per attirare l’attenzione e per sfogarsi. Nel primo caso il piagnucolio continuo è una vera e propria forma mentis: non avviene solo con gli altri ma anche, e prima di tutto, con se stessi. Ci si alza al mattino e in modo automatico si inizia a fare l’elenco delle cose che non vanno, di quanto si è stati sfortunati, di come un destino avverso e ineluttabile ci trascinerà verso il fondo. C’è poi chi usa un evento negativo per ricamarci sopra e cercare l’attenzione altrui: probabilmente è un meccanismo che mette in atto da moltissimo tempo (magari fin dall’infanzia), e anche in questo caso esiste una coazione a ripetere.
Chi agisce così pensa che l’unico modo per farsi vedere dagli altri (quindi per esistere) sia presentarsi come il più derelitto del mondo. Infine c’è chi utilizza la lamentatio per sfogarsi. Vive la sua giornata tranquillamente, poi arrivato a tiro del malcapitato di turno, lo sommerge con una valanga di piagnistei che ha preparato con dovizia di particolari. In pratica, chi si ritrova ad ascoltare (e spesso sono sempre le stesse persone) diventa il cestino dei rifiuti emotivi altrui. Con il risultato che un dialogo simile è dannoso per entrambi gli interlocutori: chi ha “vuotato il sacco” non ha fatto altro che rinforzare un comportamento nocivo per se stesso; chi invece ha “subito” la tiritera lamentosa, dovrà depurarsi dalle tossine emotive ricevute.
Oltre ai danni psicologici, lagnarsi fa male alla salute?
Il continuo rimuginio sugli eventi negativi del passato mantiene il nostro organismo sotto stress. Non solo: secondo gli studi di Martin Seligman, uno dei fondatori della psicologia positiva, chi si chiude in una sorta di vittimismo autocompiaciuto ha più probabilità di ammalarsi rispetto a chi mantiene un atteggiamento proattivo e positivo di fronte alle difficoltà dell’esistenza.
Infatti, oltre a un maggiore rischio di sviluppare uno stato depressivo importante, può andare incontro anche ad alterazioni ormonali e a un malfunzionamento del sistema immunitario. Il che poi può spianare la strada all’insorgere di diverse malattie. Come si impara a guardare la realtà con occhi diversi? Occorre esercitarsi. Innanzitutto, già di primo mattino, fermiamo il treno dei 123 RF pensieri negativi in arrivo. Non identifichiamoci con essi. Guardiamoci dall’esterno.
Come ci sentiremmo se al risveglio qualcuno di fianco a noi cominciasse a elencare tutti i nostri fallimenti?
Allontaneremmo l’ospite sgradito. E allora perché permettiamo a noi stessi di inveire contro le nostre fragilità? In questo modo ci stiamo autosabotando. Invece dell’aggressività usiamo la gentilezza: è uno strumento efficace per stoppare la voglia di lamentarci. La prima cosa che possiamo fare è dirci al mattino: oggi mi merito una bella giornata. La seconda è riproporci di ascoltare maggiormente gli altri. In genere chi si lamenta si mette sempre al centro: “A me è successo questo, ho subito quest’altro”. Spostiamoci da lì e iniziamo a guardare gli altri.
Ognuno di noi deve convivere ogni giorno con successi e fallimenti: osserviamo e ascoltiamo chi ci sta intorno. Sviluppare empatia verso il prossimo ci farà passare la voglia di compiangerci e ci permetterà di entrare in relazione in modo diverso con familiari, amici e colleghi. Non saremo più gli sfigati di turno che hanno sempre una disavventura da raccontare e loro non saranno per noi il sistema di riciclaggio delle nostre emozioni. Infine, dobbiamo imparare a concentrarci sulle domande più che sulle affermazioni che facciamo a noi stessi.
Perché gli interrogativi sono importanti?
Servono ad avere risposte utili ed efficaci, propedeutiche a un percorso trasformativo. Normalmente le persone si concentrano su questioni futili. Facciamo qualche esempio. Prendiamoci un attimo di tempo e chiediamoci: “In che situazione mi trovo? È quella che desidero? Quali cambiamenti devo apportare alla mia vita per far sì che le due domande precedenti combacino? Da chi dipendono questi cambiamenti? Cosa posso fare per stimolarli e agevolarli? Qual è il primo, piccolo passo che devo compiere per andare nella nuova direzione?”.
Pensiamo in grande ma agiamo gradualmente, iniziando dalle piccole cose. Non puntiamo a essere una persona diversa da un giorno all’altro. Concentriamoci sui piccoli risultati. Immaginiamo di scrivere la sceneggiatura di un film dove i protagonisti (cioè noi) si trasformano in ciò che vorremmo essere. Scriviamo uno storyboard dove, scena per scena, programmeremo la nostra trasformazione, fino all’episodio finale.
Preparati: si va in scena!
Spesso chi deve concentrarsi sulle rappresentazioni mentali positive fa fatica a vedere se stesso in modo diverso. Questo esercizio consiste nel darsi la possibilità di costruire un sé differente per sviluppare o fare riemergere competenze che si considerano importanti. Prima di tutto devi mettere a fuoco le abilità di cui hai bisogno per sentirti realizzata.
Poi inizia a compilare una lista di persone che possiedono quelle qualità, finché non hai trovato quella che fa per te. Può essere una vicina a noi, come un amico, un collega, un conoscente, oppure una persona famosa. Poi comincia a studiare il personaggio. Osservalo in azione: la postura, il tono della voce, il suo modo di muoversi e relazionarsi con gli altri. Infine, mettiti nei suoi panni, proprio come se fossi un’attrice che si immedesima nella parte.