quando può “salvare” la schiena

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Farmaci, massaggi, fisioterapia, ozonoterapia e agopuntura possono dare sollievo, ma spesso non bastano. Talvolta, il mal di schiena diventa così invalidante da pregiudicare le normali attività quotidiane, visto che la giornata è scandita continuamente da gesti, azioni e sforzi che portano a fletterci, inclinarci oppure ruotarci in avanti o all’indietro.

In aiuto può venire la chirurgia vertebrale robotica, una tecnologia all’avanguardia che riesce a eseguire interventi di stabilizzazione della colonna con la massima precisione e mini-invasività. Utilizzata solo in sei centri italiani, il primo a Milano, questo trattamento è utile in caso di artrosi degenerativa, discopatie o patologie congenite, che non rispondono alle terapie conservative.

Mal di schiena, quando occorre la chirurgia

«Mediamente, solo il 5 per cento dei pazienti che si sottopongono a una visita specialistica entra in sala operatoria: gli altri non necessitano di chirurgia o, per lo meno, non ne hanno bisogno in quel preciso momento», riferisce il dottor Giuseppe J. Sciarrone, co-direttore del Centro di Chirurgia Vertebrale e Robotica dell’Ospedale Humanitas San Pio X di Milano.

Nella maggior parte dei casi il dolore è di tipo muscolare, per cui la schiena fa male a causa di posture scorrette mantenute per periodi prolungati, di un disagio emotivo che si somatizza sul corpo, di un’eccessiva attività fisica o, al contrario, di una forte sedentarietà, con una componente di predisposizione ereditaria.

Altre volte, invece, dietro a un dolore che non passa può nascondersi una patologia degenerativa, di solito correlata all’invecchiamento, come le discopatie, la spondilolistesi (cioè lo scivolamento di una vertebra sull’altra), la stenosi del canale vertebrale (dovuta a un restringimento dello spazio in cui decorrono il midollo spinale e le radici nervose), la scoliosi ex novo o una frattura patologica, causata da una scarsa qualità dell’osso e quindi, piuttosto frequentemente, dall’osteoporosi.

«È soprattutto la degenerazione artrosica a comportare un forte squilibrio biomeccanico all’interno della colonna, che subisce una sollecitazione sbagliata e può diventare estremamente dolente», spiega Sciarrone.

Mal di schiena, quali interventi sono possibili

A grandi linee, esistono due tipologie principali di chirurgia vertebrale. «Quella conservativa si basa sulla risoluzione del sintomo», spiega il dottor Sciarrone. «L’esempio più classico è la sciatalgia, molto frequente tra la popolazione e che, generalmente, ha come causa l’ernia del disco. Immaginiamo i dischi intervertebrali come cuscinetti elastici interposti tra una vertebra e l’altra, che hanno la necessità di trovarsi tra due vertebre parallele per non sgusciare via come farebbe una saponetta bagnata fra le mani».

Può accadere che questi dischi si lesionino e rilascino il materiale gelatinoso al loro interno, il cosiddetto nucleo polposo, che va a comprimere le terminazioni nervose circostanti, determinando dolore. «È raro che l’ernia del disco richieda un intervento chirurgico, perché l’organismo riesce a “guarirla” naturalmente», evidenzia l’esperto. «Qualora non avvenga la remissione spontanea, è necessario rimuovere con un intervento il frammento erniato e lasciare la struttura anatomica intatta il più possibile».

La seconda modalità di chirurgia, invece, è ricostruttiva e prevede l’utilizzo di protesi (come accade per anca, ginocchio o spalla, ad esempio) che hanno l’obiettivo di ricreare un ambiente anatomico simile a quello fisiologico. Si tratta della chirurgia vertebrale più diffusa, circa 35mila interventi all’anno in Italia, che va a correggere soprattutto le discopatie degenerative, legate al normale processo di invecchiamento, quando i dischi intervertebrali perdono flessibilità, elasticità e potere ammortizzante.

L’approccio mininvasivo

Un tempo, per attuare la chirurgia ricostruttiva era necessario “spogliare” la colonna vertebrale, cioè staccare tutta la componente muscolare per poter visualizzare direttamente la sede di intervento e porre rimedio. Questo comportava un problema non indifferente dal punto di vista funzionale, perché i tempi di recupero erano lunghi, variabili da persona a persona.

Oggi, invece, si sta facendo sempre più spazio l’approccio mininvasivo, dove gli interventi avvengono al “chiuso” e la muscolatura viene attraversata o divaricata, attraverso piccole incisioni, senza traumi. «Fino a qualche tempo fa, per intervenire in questo modo, le strutture anatomiche, cioè le vertebre da stabilizzare, dovevano essere visualizzate attraverso l’utilizzo di apparecchi a raggi-X per vedere in tempo reale come e dove intervenire. Ciò comportava una forte esposizione alle radiazioni ionizzanti sia per il paziente sia per l’operatore», riferisce il dottor Sciarrone.

«Oggi, invece, i sistemi robotici all’avanguardia prevedono un’unica acquisizione delle immagini all’inizio dell’intervento, attraverso una particolare Tac che realizza un modello virtuale 3D della colonna del paziente, per cui la dose di radiazioni è bassissima. In più, un sistema di navigazione GPS permette alla mano del chirurgo di essere guidata con precisione millimetrica nel posizionamento delle protesi vertebrali, riducendo notevolmente le complicanze operatorie».

Quali sono i vantaggi della chirurgia vertebrale robotica

Il sistema robotico è dotato di un software e di speciali sensori che integrano i dati e le immagini del modello 3D con i micromovimenti del paziente, anche quelli involontari e impercettibili dovuti al respiro. Così, durante l’intervento, il chirurgo viene guidato nel percorso ideale, minuto per minuto e millimetro per millimetro.

Questo garantisce una serie di vantaggi: elevato grado di precisione nel posizionamento dei mezzi di sintesi (viti, placche e protesi discali), tempi di intervento ridotti (anche del 60-70 per cento), minore sanguinamento, piccolissime incisioni, basso tasso di infezioni, maggiore velocità di ripresa.

«Ovviamente, aumenta anche la sicurezza nell’inserimento degli impianti», sottolinea il dottor Sciarrone. «La chirurgia della colonna è legata a diversi pregiudizi e luoghi comuni, molto radicati fra la popolazione, ma privi di fondamento. Non c’è nessun rischio di rimanere paralizzati, in particolare se l’intervento avviene a carico del tratto lombare: questa zona non contiene midollo spinale, che in genere si esaurisce con la prima vertebra lombare, ma è occupata dalla cauda, un fascio di nervi impacchettati all’interno di una guaina, la dura madre, che afferiscono alle gambe».

Non incontrando midollo spinale, quindi, è impossibile danneggiarlo. «Più delicati sono gli altri tratti della colonna, ma comunque i traumi sono rarissimi. Peraltro, l’approccio mininvasivo aumenta la precisione chirurgica, abbassando ulteriormente i rischi, già comunque minimi».

Chirurgia vertebrale robotica anche per pazienti “critici”

L’utilizzo della chirurgia robotica vertebrale ha ampliato la platea dei potenziali beneficiari, riportando in sala operatoria alcune categorie di pazienti (per esempio diabetici, obesi e osteoporotici) considerati ad alto rischio di complicanze.

«Nella chirurgia protesica è importante che l’organismo sia reattivo, mentre in questi soggetti è più lento nei suoi processi rigenerativi. Grazie all’approccio mininvasivo, più raffinato e più rispettoso dei tessuti, anche i pazienti difficili possono affrontare l’intervento senza particolari controindicazioni», assicura il dottor Sciarrone. Che conclude: «L’importante è affidarsi a centri di eccellenza per arrivare a una diagnosi certa. L’Ospedale Humanitas San Pio X di Milano mette a disposizione un’équipe multidisciplinare, che prende in carico il paziente dall’inizio del percorso fino all’individuazione della terapia più adeguata, che non necessariamente è l’intervento».

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